Ariccia è una cittadina molto antica, costellata di elementi che ne esaltano la lunga storia.
Il Santuario di Santa Maria di Galloro, Palazzo Chigi, il celebre Ponte ottocentesco, la Via Appia Antica. Le tracce dell’arcaica Aricia si riscontrano nella toponomastica archeologica, nel cuore più sensibile e vetusto dell’eredità pagana, parliamo del Tempio di Diana Nemorense, detto anche -per l’appunto- Santurario di Diana Aricina, e del bosco sacro che lo circonda, noto come nemus aricino.
Attraversando il Ponte di Ariccia si ha l’impressione di valicare un crocevia di forze remote e potenti: da una parte si staglia Monte Cavo, con le vestigia del Tempio di Giove Laziale, dall’altra abbiamo Vallericcia, dove un tempo si trovava l’omonimo lago vulcanico (laddove il monumentale Emissario del Lago di Nemi sfogava le acque drenate dallo Specchio di Diana) e, guardando ancora oltre, si dipana l’azzurra la vastità del Mar Tirreno.
Nonostante la gloria che circonda le vestigia di questa località, per lungo tempo la popolazione dei paesi più o meno limitrofi ha ritenuto ritenuto che Ariccia fosse infestata da mostri.
Ariccia, il paese dei Mostri
Nel Lazio antico circolava un detto che recitava “Vi sono molti Manii ad Ariccia“.
I più colti riconducevano questa denominazione a Manio Egerio Lesbio, personaggio ritenuto da alcuni persino il fondatore del Tempio di Diana Nemorense e ricordato dallo storico Catone (234 a.C.-149 a.C.) come un uomo di grande valore il quale -benché di origine tuscolana- si stabilì ad Ariccia ed ebbe una vasta progenie. Il termine Manii, perciò, indicherebbe gli appartenenti alla dinastia di questo illustre personaggio locale.
Tuttavia, nel linguaggio popolare arcaico, “mania” era il vocabolo impiegato per denotare persone deformi e malvagie, di origine sconosciuta e dall’aspetto abominevole, davanti alle quale i fanciulli scappavano piangendo, spaventati a morte dalla sola vista. Da questa ambiguità ebbe origine la credenza secondo cui il paese era abitato da esseri vili e mostruosi.
Ma, come spesso accade scavando in quelle che sembrano delle semplici curiosità, c’è molto di più da scoprire.
Frazer, i pani e gli spiriti dei morti
Lo studioso James Frazer (1854-1941), con la sua imponente opera Il Ramo d’Oro, fonda l’antropologia e lo fa proprio partendo dall’analisi del culto di Diana nel bosco di Nemi e dal relativo, cruento, omicidio rituale del Rex Nemorensis.
Frazer notò che nell’Antica Roma erano diffusi i maniae, dei pani aventi fattezze umane, e che Ariccia era celebre come luogo di produzione di queste specialità. Mania, inoltre, era il nome con cui veniva chiamata la madre (o la nonna, a secondo delle fonti) degli spiriti.
Servio Tullio, nel VI a.C., istituì la festa dei Compitalia, celebrazione in onore dei Lares Compitales, divinità di remotissima origine etrusca deputati alla guardia e alla protezione degli incroci e delle vie di passaggio. La festività si celebrava -probabilmente- dopo i Saturnali, nei primi giorni di Gennaio e in questa occasione venivano offerti a Mania delle figurine maschili e femminili di lana. In questo frangente speciale era previsto che fossero gli schiavi a officiare i riti, in quanto i Lari gradivano in modo particolare di essere serviti da loro.
Si riteneva che nella notte del 2 Gennaio gli spiriti dei moriti vagassero sulla Terra in cerca di vittime da mietere ed era usanza a Roma, perciò, appendere fuori dalle porte questi simulacri, uno per ogni abitante della casa, affinché i fantasmi -per inganno o per benevolenza- portassero con sé le effigi piuttosto che i vivi.
Questa tradizione potrebbe, secondo alcuni antropologi, rappresentare le vestigia di antichi sacrifici umani svolti nel corso di questa occorrenza. È possibile, dunque, che i pani di forma umana sfornati ad Ariccia -i Manii– in epoca arcaica, non fossero altro che rappresentazioni del Rex Nemorensis realizzate ogni qualvolta il sacerdote fosse stato ucciso secondo il rituale e consumate, nella notte dell’omicidio, come sacramento.
Quale che sia l’interpretazione corretta del detto “Vi sono molti Manii ad Ariccia“, quel che resta è l’alone di un paese che nel suo cuore custodisce storie di uomini valorosi, di mostri, di sangue e di divinità ancestrali.
Alessandra di Nemora
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