Bosco del Cerquone di Rocca Priora, foresta originaria

“A tutto ciò che non ha nome e tace/
sento l’anima mia farsi vicina.”
Patrizia Valduga

I 15.000 ettari che costituiscono il Parco Regionale dei Castelli Romani sono il frutto dell’attività che il Vulcano Laziale ha svolto nel lasso temporale che va dai 600.000 ai 40.000 anni fa. Alternando eruzioni esplosive a momenti vitali di tipo effusivo, questo potente strato-vulcano ha modellato del territorio, dando vita a rilievi, vallate, laghi e monti.
Superate le ultime glaciazioni, in epoca protostorica e storica, gran parte della vegetazione dei Colli Albani era rappresentata principalmente da boschi misti di querce, aceri, tigli, carpini, faggi e una quota contenuta di castagni. Questo assetto, noto come “foresta mista originaria“, è confermato sia dalle analisi paleobotaniche che dalle fonti storiche, le quali documentano ampiamente la presenza di boschi sterminate in tutta l’area, selve che spesso divenivano sedi di culti (come il Nemus arcinum, sacro alla dea Diana) e che fecero attribuire l’appellativo di Silvii alla dinastia dei re di Albalonga.
Tuttavia, nel corso del XVI secolo, la flora dei Castelli  Romani -già progressivamente erosa dall’attività pastorale e agricola dell’uomo- subì un brusco mutamento.
Il forte accrescimento demografico provocò un incremento massivo della domanda di legname per fini edili e per il riscaldamento e, inoltre, la viticoltura richiedeva un utilizzo estensivo del legna per la realizzazione di botti e paleria per il supporto delle viti. Per figurarsi le dimensioni del fenomeno, basta pensare che all’epoca tutte le osterie di Roma servivano agli avventori proprio il vino prodotto ai Castelli. La serie di concause descritte generò la necessità di ottimizzare la silvicoltura, a vantaggio della specie di albero diffuso sul territorio più veloce nel processo di ricrescita: il castagno. Oltre a fornire un’ottima legna, versatile e modellabile, questo albero elargiva frutti altamente nutrienti e utilizzabili anche per la produzione di farina. Così, un taglio selettivo e un impianto dopo l’altro, alle quote più elevate il castagno finì per predominare sulla foresta mista originaria, fino a fagocitarla interamente, mentre nelle aree fra i 300 e i 500 m.s.l.m. imperarono vigneti e oliveti.

L’ultima foresta mista originaria

Il Bosco del Cerquone rappresenta una sorta di capsula del Tempo. Copre un territorio di 75 ettari all’interno del quale impera ancora il bosco residuale composto da querce, tigli e aceri ed è perciò possibile ammirare la natura come si presentava nei Castelli Romani prima del 1500.
Addentrandosi nel sottobosco ombreggiato è possibile incontrare imponenti querce secolari ed esemplari con una circonferenza di tre metri. La quercia che domina in questa zona è la farnia, tipologia in realtà poco diffusa nel resto dell’area. Nella variopinta diversità che si incontra nel Bosco del Cerquone, figura anche una specie di fiore rara e protetta a livello regionale: il giglio rosso.
Questa area è cristallizzata fra il verde acceso dei Pratoni del Vivaro, con la Catena dell’Artemisio che osserva dall’alto, è la zona paludosa della Doganella.
Il grado di maturazione, l’antichità, della selva è testimoniata dal fitto intrecci di rami che filtra i raggi solari donando all’ambiente circostante un aspetto sospeso e incantato, nonché da alcuni esemplari secolari di querce cadute al suolo e divenute substrato fertile per la proliferazione di coleotteri e ditteri.
Il Bosco del Cerquone è un luogo in cui perdersi. Le vie per accedervi sono infinite, i sentierini che lo attraversano si interrompono quasi tutti dopo poche centinaia di metri.
Lasciandosi alle spalle lo Stradone del Vivaro, ci si immerge nella macchia e dopo pochi passi ci si ritrova proiettati in uno spazio cristallizzato ed evocativo. Si procede con piede leggero, con la paura di disturbare un equilibrio millenario. Il modo migliore per entrare in contatto con questo luogo, è lasciare che sia lui a guidarci, che sia il bosco a lasciarsi scoprire di volta in volta un poco di più. Senza prefissarsi un percorso, senza fissarsi mete od obiettivi. Penetrando poco a poco i giochi di luce e ombra creati da questo ossario di corteccia e rami, lo sguardo viene catturato ogni volta da un dettagli nuovo.
Talvolta la vegetazione si apre all’improvviso e rivela un tronco secolare, ieratico e rugoso, ricoperto da rampicanti. Altre volte prendono forma grandi esemplari schiantati al suolo, giganti dormienti su di un fianco, oppure maestose farnie dai rami spalancati, che sembrano danzare nella luce soffusa.
Ed è qui che si manifesta il divino.

La quercia sacra nelle civiltà antiche

La quercia è un albero sacro in molte culture. Galli, Romani, Celti, tutti rispettavano profondamente questo albero, tanto dall’essere timorosi nell’abbatterlo.
Simbolo di sovranità, di gloria, ma soprattutto di incontro fra divinità ed essere umano e -in alcuni casi- tempio stesso. La quercia appartiene al gruppo degli alberi cosmici, venerati come creature sacre nelle quali poteva realizzarsi la fusione del terreno con il metafisico. Con il loro corpo fatto di radici, tronco e chioma costituivano inoltre un’efficace allegoria dei tre mondi, comune a molte religioni: quello degli inferi, dei viventi e della divinità. Tale pianta nella mitologia greca e romana era considerata l’albero sacro a Giove (o Zeus): infatti il più antico oracolo greco, situato a Dodona nell’Epiro e dedicato a Zeus, era proprio una quercia, mentre a Roma il colle Campidoglio, consacrato a Giove, era ricoperto di querce. Corone di intrecciate con foglie di quercia adornavano il capo dei cittadini valorosi (i viri) e dei soldati decorati per aver salvato la vita a un loro commilitone in battaglia. Non è un caso se, in latino, il termine rubur significa sia “forza” che “quercia”.
La mitologia romana narra che le querce possono ospitare due ninfe, considerate le anime degli alberi, le Driadi e le Amadriadi: le prime avevano la possibilità di abbandonare l’albero prima dell’abbattimento mentre le seconde erano congiunte ad esso per sempre.
Vale la pena soffermarsi sul ruolo della quercia della tradizione del Rex Nemorensis, antico rituale omicida praticato presso il tempio di Diana sulle sponde del lago di Nemi.
Il pretendente al sacerdozio, uno schiavo fuggiasco senza nulla da perdere, doveva strappava un ramo di vischio dalla una quercia sacra situata nel recinto del Santuario per potersi presentare alla sfida. Il vischio (intorno al lago di Nemi si trova precisamente la specie definita Loranthus europaeus) è una pianta che si sviluppa direttamente dal tronco degli alberi: semiparassita, si nutre della linfa dell’albero che la “ospita” ma è dotata di clorofilla; quindi, realizzando la fotosintesi, possiede una parziale autonomia biologica. Sospesa sul tronco tra la terra e il cielo, dipendente da un altro vegetale eppure in certo modo indipendente, da sempre le viene attribuito un grande significato simbolico.
Ma il vischio del Tempio di Diana non era un vischio qualsiasi, bensì il ramo che Enea condusse con sé nella sua catabasi verso gli inferi per incontrare il padre Anchise.
“Il Rex  Nemorensis, ovvero il re del bosco, era la personificazione dello spirito della quercia” scrive James Frazer nel suo celebre saggio Il Ramo d’Oro, volume interamente dedicato a rintracciare le origine del brutale duello e che segnerà la fondazione dell’Antropologia come branca di studi. Nel contesto del rituale, mostrare il ramo di vischio -ovvero il ramo d’oro, dal colore che assume la sua superficie al tramonto- significava assumere la responsabilità di rappresentare l’albero più massiccio e longevo (la quercia), cioè l’energia della natura, per sacrificare a Diana se stesso o l’avversario, provvedendo in tale modo alla fertilità della terra e alla salute del popolo.
Il sacrificio di un essere vitale ed energico, nel pieno della sua bellezza, come linfa vitale per coloro che restano è un elemento ricorsivo delle culture arcaiche di tutto il pianeta e persiste nelle religioni moderne sotto forme traslate. Basti pensare alla tradizione che sopravvive in diversi paesini dell’Italia (ad esempio a Pitigliano, in Toscana, provincia di Grosseto) di bruciare dei fantocci di paglia il giorno di San Giuseppe (19 marzo)  il quale -non a caso- cade poco prima dell’equinozio di primavera, ovvero il momento cosmico in cui la natura rinasce. Gli studiosi non escludono che queste tradizioni altro non siano che la versione “sofisticata e civilizzata” di reali sacrifici umani perpetrati anticamente al fine di garantire la fertilità della terra e la prosperità delle comunità.
Da notare, a ogni modo, che nel contesto del Rex Nemorensis il ramo spezzato non appartiene direttamente alla quercia: la quercia è la Divinità, è necessario un viatico affinché l’uomo possa portarne una parte con sé. Ciò che è divino resta inviolato.

Emergendo da questo spazio sacro, si viene aggrediti dalla luce del sole e dall’odore del fieno.
Il Bosco del Cerquone è, a conti fatti, un Santuario naturale, un sacrario. Camminare fra i filari di farnie equivale a passeggiare fra le colonne di una Cattedrale. Nella penombra di queste navate di corteccia, il mormorio delle tenere foglie mosse dal vento è la preghiera più autentica e primordiale che si possa udire.

Alessandra di Nemora