Madre Universale

I campi incorniciavano l’occhio vulcanico del lago di Nemi e l’azzurro delle acque spiccava al centro della natura in Nemi_Madre Universalerinascita.
Speculum Dianae, lo specchio di Diana.
Il profumo delle mimose dominava su qualsiasi altro odore ed esplosioni di giallo interrompevano il continuum delle tenere foglie nuove.
L’edificio del Museo delle Navi Romane spiccava fra la vegetazione selvatica e le coltivazioni, unico indizio di una lunga storia da raccontare racchiusa in questo piccolo spazio incastonato fra i dolci declivi del nemus aricino.
Erano i primi giorni di marzo, era quasi primavera.

Osservando questo piccolo lago del perimetro di circa 5 chilometri e poco più di 30 metri di profondità si intuisce la presenza di un qualcosa che è difficile definire.
Personalmente, sono stata attirata in questo luogo per anni, senza comprendere per lungo tempo cosa fosse a chiamarmi qui, a spingermi a tornare. Mi limitavo a guardare il lago dall’alto, della terrazza di Nemi, in un incessante tornare appassionato quanto frustrante: ogni volta che imboccavo la via del ritorno mi accompagnava, di fatti, l’impressione di essermi persa qualcosa di importante.
Conoscevo in parte la storia del lago, le vicende legate al ritrovamento delle navi di Caligola e sapevo che sulle sponde un tempo sorgeva il santuario di Diana Nemorense. Ciò che nessuno mi aveva mai detto era che il tempio fosse ancora lì, in parte intatto.
Le mie visite a Nemi sono proseguite per anni, finché una notte un sogno cambiò la carte in tavola. Sognai di scendere lungo le sponde del lago e di percorrerne la circonferenza, nel corso della passeggiata trovavo cose meravigliose quanto confuse. La mattina successiva decisi che alla prima occasione avrei esplorato il periplo del lago.

La mia auto sobbalzava sui sampietrini mentre attraversavo l’antico Arcu da Pete, l’ingresso monumentale che delimita l’entrata e l’uscita al paese di Nemi.
La strada tortuosa che conduce verso il basso era inondata di sole e costellata da alberi di mimosa in fiore. Non avevo un programma particolare, l’idea era quella di curiosare in giro lasciandomi guidare dal’intuito.
Una volta raggiunto il basso, la mia attenzione viene colpita da un cartello che recitava “Resti del Tempio di Diana”. Sgranai gli occhi.
L’unica persona con cui avevo parlato del santurario mi disse che non esisteva più, che essenzialmente rimanevano solo tre pietre sparse per terra e l’accesso all’area era per lo più interdetta. Il segnale, tuttavia, lasciava presagire molto di più.
Abbandono l’auto a bordo strada e incomincio a camminare seguendo un sentierino nel bosco. Con il senno di poi, avrei scoperto che procedendo poche centinaia di metri più avanti sarei incappata in un percorso molto più comodo e diretto, ma all’epoca non potevo immaginare niente di tutto ciò.
Così, dopo 15 minuti di cammino, mi persi. Come accade di continuo.
Tuttavia, è sempre stato smarrendomi che sono riuscita a fare le esperienze più interessanti e anche in quel caso il destino non si smentì.

Nel fitto del bosco non c’era alcun tipo di indizio che indicasse dove fossero i resti del tempio, così proseguivo alla cieca. Fu provvidenziale l’incontro con tre avventori che passeggiavano in tutta serenità in mezzo al nulla il cui mi trovavo: chiesi informazioni e mi indicarono la via per giungere all’area archeologica dal punto in cui eravamo.
Mi persi di nuovo, ma almeno adesso sapevo che orientativamente la direzione era quella giusta. Dopo una decina di minuti mi ritrovai davanti a una casetta contadina diroccata, poco dopo notai dei terrazzamenti e dei grossi massi squadrati a terra. Capii di essere già all’interno del recinto sacro.
Il sole stava cominciando il suo arco verso il tramonto, davanti a me il lago baluginava fra gli alberi.

Ripensai al Ramo d’Oro di James Frazer, al cruento rituale di successione del Rex Nemorensis.
Nel Tempio di Diana Nemorense, di fatti, si svolgeva un rituale di successione sacerdotale anomalo per il mondo italico. La tradizione narra che il sacerdote in carica dovesse essere sfidato a duello da uno schiavo fuggiasco il quale, dopo aver rubato un ramo dal sacro albero piantato qui dalla talea che Enea portò con sè nella sua discesa degli Inferi come suggerito dalla Sibilla Cumana, avrebbe ereditato il titolo nel caso cui fosse riuscito a uccidere con le sue mani il Rex Nemorensis.
Frazer asserì, nella sua interpretazione, che l’albero sacro in questione dovesse essere un a quercia sulla quale si inerpicava del vischio, mi guardavo intorno: chissà se fra gli alberi che mi circondavano non svettasse ancora l’antico ramo d’oro.
Pensai che non avrei trovato molto più dei massi fra cui camminavo, ma la mia supposizione venne presto smentita.

Dopo una ripida discesa voltai a destra e i miei occhi brillavano alla vista delle celle donarie, ricettacoli in cui erano stati trovati decine e decine di ex voto dedicati a Diana Nemorense.
Osservai attentamente ogni dettaglio, accarezzando la pietra antica e cercando di immaginare come dovesse apparire quell’ambiente un paio di millenni prima. Rimango colpita da un ambiente ricoperto da una tettoia e il cui pavimento risulta coperto da brecciolino e da un telo.
Mi accovaccio e con le mani scosto le pietruzze, ciò che si svela al di sotto mi lascia senza parole: un meraviglioso mosaico con motivi in foglia di vite, perfettamente conservato. Lo ricopro con attenzione, avendo cura di lasciare tutto così come l’avevo trovato.
Proseguendo incappo in un basso cancelletto in legno, accostato. Mi intrufolo e il breve capisco di trovarmi all’interno di un’azienda agricola. Davanti a me c’è la struttura nota come Edificio K, sullo sfondo svetta un casaletto Settecentesco.
Do una rapida occhiata agli elementi del tempio che spuntano dal terreno, ma sapendo di trovarmi in un’area privata non mi avventuro oltre.
Credevo di aver visto tutto ciò che c’era da vedere e, incentivata dal sole calante, riprendo la via del ritorno. Ed è proprio in quel momento che intravedo una grande struttura e capisco che, in realtà, mi ero persa la parte saliente del sito.

Sormontata da un’ampia tettoia in legno e circondata da alti nicchioni, spiccava una sala con delle grandi colonne e tempio_madre universaledalle pareti che ancora presentavano resti di affreschi e decorazione purpuree.
Scendo i gradini che immettono nell’ambiente, la tiepida luce del tramonto inonda ogni angolo. Sono sospesa nel Tempo e nello spazio, come se il resto del mondo si fosse annullato.
Sul fondo della sala, nell’angolo di sinistra, noto che su quello che doveva essere il basamento di una statua vi sono posti degli oggetti. Mi avvicino: fiori, una freccia, incensi, candele, bigliettini con delle invocazioni. È un altare. Si tratta di un altare.
Ero sconcertata, sopraffatta, non avrei mai pensato di trovare nulla di simile. Comprendo che quella stessa forze, quell’energia, quell’entità che mi aveva chiamata a sè, aveva a suo tempo attratto altre persone.
Una sensazione di familiarità mi pervade: non era come visitare un luogo per la prima volta, l’impressione era quella di un rientro a casa.
Ma perché? Perché in un tempio pagano dedicato a Diana?

Avrei capito solo con il tempo che quell’ambiente era stato un luogo di culto per lungo tempo, ancor prima di divenire un santuario dedicato a Diana.
Giuliano Di Benedetti, studioso di storia locale e autore di interessanti testi al riguardo, sostiene che durante la glaciazione Würm -terminata all’incirca 10.000 anni fa- il territorio del lago di Nemi abbia costituito un’isola verde nel mezzo della desolazione dei ghiacci grazie all’attività vulcanica, la quale avrebbe generato calore supplementare e preservato così la vita di flora e fauna mentre tutt’intorno la natura era stata annientata.
Il Tempio di Diana si trova ai piedi del vallone di Fontan Tempesta il quale, a sua volta, ha alle spalle il promontorio dell’antico Mons Albanus, attuale Monte Cavo.
Di Benedetti sostiene che osservando il panorama in prospettiva si potrebbe interpretare Monte Cavo come il ventre di una donna incinta e la fenditura del vallone come una vulva.
Immaginando questo scenario preistorico inserito nel contesto di una macchia verde al centro dei territori glaciali, lo studioso ritiene che i nostri progenitori abbiano riconosciuto in esso l’incarnazione della Dea Madre, la quale partorisce natura rigogliosa e le acque azzurre del lago.
La connotazione sacra originale di questa porzione del territorio sarebbe dovuta perciò a tale radice ancestrale, solo con il trascorrere dei millenni -con l’evoluzione dei culti naturali in paganesimo- il santuario sarebbe stato associato alla dea Diana.
Personalmente ritengo che la stessa costruzione dell’ Emissario del lago di Nemi per salvare il tempio dalle acque, impresa di natura del tutto straordinaria ed effettuata in un’epoca remotissima in cui il tempio non aveva probabilmente ancora raggiunto la raggaurdevole estensione di 45.000 mq, rappresenti una riprova del fatto che la sacralità nemorense sia strettamente intessuta con l’esatta collocazione dei geografica del tempio alle pendici del vallone di Fontana Tempesta.
In caso contrario, sarebbe stato molto più semplice ricostruire il santuario in un’area sicura, piuttosto che scavare un tunnel di oltre 1.600 metri nel basalto per dominare le acque del lago.
La teoria della Dea Madre potrebbe essere confermata anche dai risultati degli ultimi scavi archeologici effettuati nel corso dell’estate del 2015, i reperti rinvenuti hanno fatto ipotizzare -di fatti- che l’area fosse utilizzata come spazio sacro in un periodo antecedente di diversi secoli rispetto a quanto sostenuto in prima istanza.
Tuttavia, all’epoca della mia prima esplorazione, ero all’oscuro di tutto ciò.
Sapevo solo di sentirmi al sicuro e in connessione con qualcosa di molto antico e profondamente radicato. Qualcosa che faceva appello a una matrice ancestrale. Un’entità benevola, una sorgente universale.

Non so per quanto tempo sono stata lì, seduta sui gradini, a contemplare quello spazio nel silenzio assoluto.
Si stava facendo tardi, era il momento di tornare.
Mentre mi accingevo a risalire, ho visto una figura attraversare i campi.
Era una ragazza vestita di nero, avanzava con il tramonto alle spalle. In mano aveva un grosso mazzo di mimose.
I nostri sguardi si sono incrociati per un istante, lei mia ha sorriso prima di passare oltre.
Ho ripreso il mio cammino, ma una volta in cima ai terrazzamenti mi sono voltata. La ragazza aveva deposto i fiori sull’altare e acceso un incenso, ora sostava in raccoglimento davanti alle offerte, con il tenue fumo che le danzava intorno.
Con il fiato sospeso ho osservato quella scena, che si andava marchiando dolcemente a fuoco nella mia memoria.

Anni dopo accedevo nel tempio con lo stesso spirito di compartecipazione universale e lo stesso senso di appartenenza, ma con una consapevolezza diversa.
Trovai una signora di mezza età davanti all’altare, aveva un rametto di mimosa in mano e teneva un piccolo cane al guinzaglio. Proveniva dall’adiacente agriturismo ed era finita lì accidentalmente facendo una passeggiata.

-Scusami, ma questo cos’è?-
– È un altare, signora.-
-Ma posso lasciare un fiore anche io?-
-Certo che può.-
-Ma per chi si offrono queste cose? A Diana?-
-Lei che ne pensa?-
-Io so solo che passavo per di qui e ho avuto voglia di donare un fiore.-
-Allora facciamo sta facendo un’offerta all’impulso che l’ha spinta qui e che ha convocato a sè anche le altre persone che hanno lasciato qualcosa. Sta onorando un legame molto antico che ci accomuna tutti.-
-Mi sembra giusto, sono d’accordo.-

Depose il fiore, poi mi ringraziò prima di andar via.
Ed era di nuovo quasi primavera, nel grembo della Madre Universale.

Nemora,
Alessandra

Un grazie a Valentina, che è stata la prima accompagnarmi in questa avventura.
Per ulteriori approfondimenti sulle teorie esposte si consiglia la lettura del testo Dalla Petima del Piccione, di Giuliano Di Benedetti.

3 commenti su “Madre Universale”

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