Il Rex Nemorensis e il Culto di Diana
“Ho trovato la definizione del Bello, del mio Bello. È qualcosa d’ardente e triste.”
Charles Baudelaire
Atteone, che aveva osato osservare Diana nell’atto di fare il bagno nuda, tramutato in cervo dal tocco del dea e sbranato dai suoi stessi cani da caccia. Ippolito, il quale disprezzò la passione che Afrodite nutriva per lui in favore della divinità delle selve, maledetto per il suo rifiuto e travolto dai cavalli della biga che conduceva. Rinasce per mano di Asclepio e per intercessione di Diana si rifugia nel Nemus Aricino, dove assume il nome di Virbio, “nato due volte”. La ninfa Egeria, amante e consigliera del re Numa Pompilio, che alla morte del sovrano si scioglie in lacrime fino a divenire una fonte di acqua curativa, sulle sponde del Lago di Nemi.
Il cruento rituale -storicamente documentato- del Rex Nemorensis, il Re del Bosco, secondo il quale la successione del Sacerdote massimo del Tempio di Diana Nemorense doveva avvenire esclusivamente per omicidio.
Questi miti e queste vicende sono stati immortalati nel marmo e nei dipinti.
Passione, bellezza, morte. Eros e Thanatos. Ma non solo, anche il senso del vigore spezzato anzitempo, della vitalità brutalmente interrotta dalla tragedia. Come nell’opera “Il martirio di San Sebastiano”, in cui Yukio Mushima vede -nel corpo giovane e forte del Santo trafitto dalle frecce- l’emblema massimo della sensualità e il trionfo della bellezza.
Al centro lei, Diana. Sempiterna dea dei boschi, del selvatico, della ferinità e della luna.
Arthur Rimbaud, nel suo Una Stagione all’Inferno, recita “Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. E l’ho trovata amara. -E l’ho insultata“.
L’essere esposti alla Bellezza cruda, senza filtri, ha un caro prezzo. Il contatto con il vertice del Bello e le sue irradiazioni, brucia e consuma. La bellezza non ha un potere salvifico, tutt’altro. Sperimentato un siffatto grado di compartecipazione con la forma più elevata e più assoluta, si incappa nel punto di non ritorno. Si è condannati a cercarla di nuovo, per suggerne ancora, fallendo a ogni tentativo.
Il contatto con l’autentica Bellezza implica la malinconia più profonda, perciò nei miti l’estasi o la vera passione sono seguiti da una forma di annientamento. Bisogna obliterarne la memoria ed è in questo stesso bruciare nella tristezza, in questo estinguersi violentemente dopo la catarsi, che il dramma si eleva a tragedia.
Ardente, ardente e triste.
Il Rex Nemorensis dopo aver scrutato nel fondo dei boschi gli occhi della dea, benché ancora giovane e vitale, poteva solo morire e adempiere al suo meraviglioso, tragico, destino. Il Santuario di Diana Nemorense è stato impregnato per secoli del sangue dei suoi Sacerdoti. Bagnarsi di questa linfa sacrificale significa accedere a uno squarcio nel tessuto della realtà conosciuta e scorgere, anche per un solo istante, visioni a cui un vivente non può sopravvivere senza soffrirne.
Alessandra di Nemora
(Immagine: L’Enigma, Gustave Doré; 1871)