Sul romitorio di Sant’Angelo in Lacu sapevo tutto ciò che c’era da sapere.
Situato sulla sponda orientale del lago di Castel Gandolfo – o lago Albano – e antico luogo di culto precristiano sul quale si innesta una comunità monastica, fa la sua prima apparizione nei documenti ufficiali in una bolla papale del 24 aprile 1116.
Il Cardinale Savelli lo restaura nel XIII secolo e lo destina ai padri Guglielmini di Montevergine. Abitato fino al 1600, risulta che i frutti coltivati nel romitorio di Sant’Angelo in Lacu venissero serviti alla mensa papale di Castel Gandolfo. Nel corso del XVII secolo tutta l’area dei Castelli Romani è infestata dai briganti, i quali trovano rifugio anche nell’eremo che risulta ormai abbandonato e perciò il Cardinale Colonna, nel 1773, dà l’ordine di distruggerlo.
Fra tutte le informazioni disponibili che avevo raccolto ne mancava una fondamentale: come si faceva ad arrivarci?
Si trovano, in realtà, descrizioni del percorso. Tuttavia, il problema di cui non si tiene conto, è che il bosco muta. Nelle quattro stagioni indossa maschere diverse e se un sentiero incolto dovesse risultare perfettamente percorribile in autunno e inverno, ciò non è da dare per scontato in primavera inoltrata o estate.
Se questi percorsi fossero regolarmente curati risulterebbero percorribili tutto l’anno, ma non è così. Perciò la prima sfida per raggiungere il romitorio è capire come barcamenarsi in uno scenario che da un mese all’altro può trasformarsi radicalmente.
Personalmente, sono riuscita ad arrivare a destinazione al quarto tentativo: i primi due in estate, il terzo in autunno e il quarto in primavera.
Le prime due volte a trarmi in inganno è stata proprio la vegetazione che aveva preso il sopravvento sul sentiero, sigillandolo dietro a un muro di rovi e ortiche. La terza volta la segnaletica confusionaria mi ha condotta fuori strada. La quarta volta è stata quella buona: ritiratasi la flora infestante e individuata la strada alternativa, non restava che camminare.
Ma cominciamo con ordine.
Vi mette in cammino imboccando il sentiero Capuccini-Palazzolo, lo stesso attraverso il quale si raggiunge la Pentima della Vecchiaccia.
Al primo bivio che si incontra girate a sinistra, per uno stretto e scosceso sentiero.
Ci troviamo sulla Discesa del Diavolo famigerata fra i ciclisti più spericolati dei Castelli Romani per la sua complessità tecnica.
Lungo il percorso è possibile notare, nella roccia vulcanica, la presenza di alcune grotte artificiali scavate dall’uomo in tempi remotissimi. Dopo poco meno di un chilometro, troverete sulla destra uno stradello nascosto fra l’erba: questa è la strada giusta da seguire. Proseguendo sulla sinistra, invece, ci si ritroverà davanti a un ulteriore bivio, la strada sulla sinistra conduce direttamente sulle sponde del lago di Castel Gandolfo, quella a destra è molto impervia e sbuca davanti al pozzo del Vaticano nei pressi della riva del lago.
Voi proseguite per la vostra via, verso il romitorio di Sant’Angelo in Lacu, la quale si presenta notevolmente accidentata.
L’area dei Castelli Romani è fortemente segnata dalla presenza dell’uomo, ciò che contraddistingue questo sentiero da quelli circostanti è che realmente si ha l’impressione di essere in un ambiente completamente selvatico, fin dai primi passi. Per la prima parte del percorso è impossibile sbagliarsi, si prosegue sempre dritti e la strada è ben visibile.
Personalmente vi consiglio di intraprendere questa escursione sempre in gruppo: a circa cinquecento metri dall’imbocco del sentiero, sulla destra, si notano delle cavità situate in alto. Incautamente mi sono arrampicata fin lassù spinta dalla solita curiosità ma, arrivata in cima, mi si è gelato il sangue nelle vene. Nelle grotte vi era un vascone in plastica, fogli di carta scritta appesi sulle parete, sedie, tavolini, bottiglie, scarpe, abiti e un fagotto arrotolato nelle coperte.
Sono scappata via come il vento giù per il costone. In sostanza, c’è un accampamento abitato nel bosco. E non è l’unico. Perciò tirate dritti senza esitazione.
Piccole grotte artificiali e antichi canali per l’acqua vi continuano ad accompagnare per parte del percorso, per poi sparire inghiottiti dal sottobosco e ricomparire di tanto in tanto.
Arrivate in un punto in cui il sentiero svanisce e davanti a voi si dispiegherà il fitto bosco uniforme. Da questo momento in poi dovete far affidamento sul vostro sesto senso e sui segni rossi e bianchi dipinti sui lecci e sui castagni.
Il cammino si tramuta in una corsa a ostacoli: scavalcate grossi massi, vi accovacciate camminando a quattro zampe al di sotto di tronchi caduti, vi divincolate da piante appiccicose o ricche di spine. Ogni tanto pensate di esservi persi, ma proprio quando siete sul punto di fare dietrofront, vi appare davanti un provvidenziale albero con le magiche strisce rosse e bianche, il quale vi confermerà che state andando nella giusta direzione. Di tanto in tanto il lago fa capolino fra la vegetazione, splendendo di mille riverberi sotto al sole.
È molto difficile che incontriate altri avventori, siete soli. Non si avvertono neppure più i rumori delle automobili o il vocio della gente sulla spiaggia. Vi fermate un istante in silenzio, avvertite intorno a voi solo i suoni del bosco.
La parte più bella del percorso arriva poco prima di arrivare al romitorio. Dopo chilometri di cammino nel fitto bosco, improvvisamente la vegetazione si apre su uno strapiombo: alla vostra sinistra ammirate uno degli scorci più belli del lago di Castel Gandolfo, davanti a voi striscia un ruscello che si va a gettare nel dislivello.
Oltrepassato il corso d’acqua vi arrampicate su un promontorio e dal basso si possono incominciare a notare i muri di sostegno del complesso del romitorio di Sant’Angelo in Lacu. Si trovano anche resti dell’antica presenza umana, quali frammenti di vasi in terracotta.
La stradina si inerpica lungo il pendio, costellato da ruscelletti e piccole grotte a fondo chiuso. Giungete in cima e vi troverete nell’area su cui sorgeva l’eremo.
Incappate subito nelle rovine di una cappella risalente all’incirca al 1200. All’interno è ancora chiaramente visibile il piccolo abside ospitante una statua moderna in gesso di Maria Vergine, in frantumi. La parete deve essere stata intonacata nel Novecento, da qualche gruppo di fedeli che di tanto in tanto si recava qui in pellegrinaggio. La statua distrutta, i fiori sbriciolati, le immaginette storte e sbiadite, tutto lascia pensare a uno stato di abbandono perdurante.
Fino a non molto tempo fa il romitorio di Sant’Angelo era oggetto di escursioni, poi l’abbandono e una frana lo hanno reso difficilmente raggiungibile e il risultato è chiaramente visibile.
Vi aggirate fra i resti, infilandovi nelle piccole camere adiacenti la cappella e scoprendo che un tempo costituivano una serie di locali dal soffitto basso. Una volta usciti dalle cavità guardate in alto e vi rendete conto che la struttura sembrava essere costituita anticamente da due piani. Non sappiamo dire con certezza se originariamente questo ambiente fosse sotterraneo o se i secoli abbiano depositato detriti fino a rendere il terreno calpestabile del bosco a livello del piano superiore.
Proseguendo oltre vi imbattete in una struttura che vi lascerà perplessi. Si tratta del cosiddetto “grottino” o “cella”, ovvero un arco dalla forma bizzarra interamente scolpito nella roccia. Attraversandolo vi trovate in un piccolo ambiente simile a un balconata, circondati da sedili. Affacciandovi realizzate di essere all’interno di un masso a strapiombo sulla una rupe che troneggia sul bosco sottostante. Questa curiosa struttura fa parte delle vestigia remotissime e precristiane annidate nel complesso di Sant’Angelo in Lacu e riutilizzate, poi, dai monaci. Il luogo in oggetto era, di fatti, sede di culti religiosi già in epoche in cui la Lega Latina e Roma non avevano ancora visto la luce. Il grottino sembra fosse arcaicamente un ambiente probabilmente chiuso, una sorta di enorme guscio d’uovo in cui probabilmente ci si ritirava per meditare. Un’altra possibilità è che qui dentro si svolgessero dei rituali atti a segnare la rinascita o la resurrezione metaforica di un individuo. Furono i soldati tedeschi, nella Seconda Guerra Mondiale, a scoperchiarlo parzialmente, per farne un nido di mitragliatrici. L’idea di una camera rocciosa oscura in cui ritirarsi per meditare o rinascere, realizzata per di più in epoca praticamente preistorica, vi lascia perplessi. Abbandonate questo misterioso manufatto pieni di quesiti.
Davanti a voi si stagliano i resti di un grande edificio, al lato del quale è ancora distintamente visibile un campanile. Entrate, guardate verso l’alto e cercate di immaginarvi come dovesse risuonare il suono della campana nella vastità selvatica che era all’epoca questa area. Come echeggiasse, nelle ore notturne, lungo le sponde del lago.
Girate un po’ intorno, alla ricerca di altri ruderi. Il bosco intorno a voi è silenzioso, siete gli unici avventori e potete liberamente esplorare qualsiasi anfratto.
Con la coda nell’occhio notate dei piccoli antri, simili a mille altri che avete incontrato nel bosco. Pensate sia un’altra modesta cavità artificiale e passate oltre, ma poi qualcosa vi spinge a tornare indietro. C’è un elemento inusuale vi è rimasto inconsciamente impresso nella mente. Eccola lì: una croce scolpita nella roccia, proprio vicino all’entrata. Prendete le torce e decidete di addentrarvi. Nel momento in cui accendete le luci rimanete senza fiato.
La caverna non solo è così profonda da non vederne la fine, ma sembra articolata in una serie di ambienti concatenati fra loro. Camminate cautamente, stando attenti a non inciampare e segretamente temendo che il fascio di luce illumini qualche cinghiale arrabbiato. Nelle pareti vulcaniche si notano gli spazi ricavati per inserire le lucerne.
Umidità e quell’odore tipico dei luoghi avvolti dalle tenebre, da secoli. Si appiccica addosso, traspira dalla roccia e dal terreno, goccia dai soffitti. E ancora il silenzio. Quel silenzio totale, scevro dal vocio e dai rumori della modernità.
Giungete all’entrata secondaria della grotta, ma prima di uscire alla luce del sole volete entrare in un ultimo angusto ambiente inesplorato. Le torce illuminano sul soffitto, oltre a una fitta rete di grilli di grotta, anche due piccoli pipistrelli che dormono appesi a testa in giù. Cercando di non fare rumore uscite da lì dentro, nella speranza di non svegliare gli animaletti.
Tornate all’aria aperta, trafitti dalla luce e abbracciati dal verde.
Il sentiero prosegue, da qui in poi, in maniera piuttosto chiara. Dopo aver oltrepassato altre cavità poco profonde, vi ritrovate a salire dei gradoni in pietra. Scivolare qui equivale a un volo a precipizio, vi aiutate aggrappandovi con le mani alla vegetazione e infine riuscite a raggiungere la sommità.
In quest’ultimo tratto lo stradello è abbastanza agevole. Ai lati si notano resti di opere di captazione di sorgenti, per terra i segni del passaggio di cacciatori armati di fucili. Per un po’ si ha la non spiacevole sensazione di non sapere assolutamente dove ci si trovi: sia il costone che il lago alla vostra sinistra sono oscurati dagli alberi e non vi sono punti di riferimento per orientarsi.
Dopo poco più di un chilometro vi ritroverete al di sotto del convento di Palazzolo, proprio nel tratto in cui il sentiero è franato nel marzo del 2014 sotto la sollecitazioni di piogge torrenziali.
Incontrate un bivio, imboccate la strada a destra, sbagliando. Dopo poco sarete nel fitto della macchia, a ridosso di una parete rocciosa. Nella speranza che quel sentiero vi conduca comunque a destinazione, continuate imperterriti e vi imbattete, infine, in un curioso accampamento all’interno di una grotta. Vi arrendete, capendo che siete irrimediabilmente finiti fuori percorso. Tornate indietro e prendete il sentiero giusto.
Sbucate sul tratto Cappuccini-Palazzolo, una decina di metri dopo le transenne che indicano il punto franato. Non vi resta che seguire il sentiero e tornare al punto di partenza.
Per prima cosa riappaiono i rumori della strada poi, nel giro di pochi minuti, incontrate persone nell’atto di passeggiare tranquillamente o fare jogging. Strano, fino a pochi metri fa eravate ancora immersi in un silenzio primordiale.
Guardate alla vostra destra, in basso. Nessun indizio indica la presenza del romitorio, né di sentieri sottostanti. Si scorge solo una trama di rami e foglie, a perdita d’occhio, e poco oltre il cratere traboccante d’acqua.
Osservate le persone che incrociate per la via. Vi sentite di ritorno da un viaggio di migliaia di chilometri. O anni. Come se, uscendo dal sentiero occultato nel bosco, foste stati espulsi da una dimensione diversa rispetto a quella in cui vi trovate ora.
La dimensione arborea del silenzio. Dei chiaroscuri drammatici. Del sacro.
Lanciate un ultimo sguardo alla radura sottostante.
No, non è finita qui.
C’è dell’altro.
Tornerete, perché c’è dell’altro.
Si ringraziano Valentina e Roberto per la disponibilità operativa, la pazienza e l’incoscienza.
Daniela de La Via Verde dei Latini per le informazioni supplementari sul romitorio.
Cliccando qui potrete vedere un video girato da un ciclista sulla Discesa del Diavolo con videocamera in soggettiva: al minuto 1.35 si nota distintamente, sulla destra, il bivio che conduce al romitorio di Sant’Angelo in Lacu.
Nemora,
Alessandra
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Linkografia:
– Video
– Avventurosamente.it
– Castelliromani.net
– Collialbani.it
Ottima descrizione letta solo ora, ho fatto il percorso lo scorso primo novembre con mio figlio di 11 anni , ma già avvezzo ad avventure montane e boschive.
L unica variante è che siamo partiti dalle sponde del lago, per salita del diavolo, ed intrapreso il sentiero 511a da lei descritto , ed il ritorno per lo stesso sentiero descritto da lei , ma senza salire a palazzolo, e per il 511 , sino a fratte Ignoranti…percorso difficile perché terreno franoso e pieno di ostacoli naturali…pero affascinante….
Articolo molto ben dettagliato, un unico errore: si chiama Lago Albano, non “di Castel Gandolfo”.
Grazie
Buongiorno Alessandra,
piccola nota di aggiornamento: c’è un altro sentiero che permette di arrivare la romitorio da sud. Pare molto meno complicato di quello che descrivi. Un caro saluto e continua così.
Francesco
Buongiorno Alessandra, seguo con interessata curiosità le tue esplorazioni e riconosco che mi sono state spesso molto utili nella riscoperta di questi territori. Riguardo a sant’Angelo in Lacu condivido pienamente la tua lettura del “grottino” e mi pare di vedere tracce dei culti Rinaldoniani, anche se non è affatto certo che quella cultura si sia spinta fin qui. Quanto agli ipogei, sarebbe ragionevole ipotizzare un riutilizzo di necropoli pre-storiche con catacombe monacali, ma sono sicuro che tu abbia fonti più attendibili della mia mera osservazione. Che dirti? Grazie per quello che ci regali, è tanta roba!