Ogni luogo possiede due dimensioni.
C’è il piano fisico e temporale, oggettivo, quello con cui gli umani interagiscono con i cinque sensi. Quello in cui, d’abitudine, trascorriamo la maggior parte del nostro tempo. O anche tutta una vita.
Si tratta di quel piano sotto il dominio del raziocinio e dell’univocità dei significati.
Tuttavia, a volte, si riesce ad accedere a una modalità di lettura diversa dello spazio.
Può accadere per intuito o a seguito di un lungo studio. Può palesarsi all’improvviso o dischiudersi gradualmente.
Ciò che importa è che quel determinato luogo non sarà più lo stesso. Un nuovo ambiente e nuovi significati nidificheranno in esso e si paleserà un paesaggio simbolico all’interno del contesto fisico. Una sorta di metapaesaggio.
Ci sono ambienti che si presentano come delle feritoie su selve di simboli in corrispondenza fra loro. Se ci si presenta di fronte a questi scorci con la giusta chiave, si spalancano.
E da piccoli spiragli, diventano giganteschi portali da attraversare.
Il grande orientalista e poeta Fosco Maraini ha definito il Tuscolo “luogo primitivo dell’anima“.
È un’anima molto antica quella del Tuscolo, cresta dell’immenso Vulcano Laziale. Conserva le memorie di un’era di tumulti geologici e le vestigia dei primi uomini a popolare questa area.
La sua fondazione viene fatta risalire a Telgono, figlio della Maga Circe e di Ulisse.
Nell’attraversarlo basta tendere l’orecchio per sentire ancora gli echi delle eruzioni e il vocìo di coloro che vi dimoravano.
Ed era proprio sul Tuscolo che mi trovavo quel giorno, quando mi misi in cammino partendo dal punto più basso del Monte, varcando il cancello spalancato e imboccando la Via dei Sepolcri.
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Lungo la strada sono disseminate tombe a colombario e mausolei risalenti a un’epoca che si estende dal I secolo a.C. al I secolo d.C.
È probabile, tuttavia, che alcuni di questi spazi fossero già adibiti a ultima dimora in epoca precedente a quella romana. Gli abeti ondeggiano dolcemente al vento, lungo la via non c’è nessuno.
Le tombe di epoca romana venivano poste su strada, in maniera tale da raccogliere le preghiere degli avventori che si trovavano a passarvi vicino, di fatti tutti i colombari della Via dei Sepolcri sono rivolti al sentiero.
Il mausoleo monumentale di M. Celio Viniciano, però, presenta una particolarità: nonostante sia disposto lungo la strada, la sua porta di accesso si trova sul lato opposto.
Sembra manifesta l’intenzione di indirizzate tutte le tombe verso un punto specifico: Sud Ovest. Voltandomi in questa direzione si stagliano davanti a me il Colle Iano e, sullo sfondo, l’imponente Monte Cavo, l’arcaico Mons Albanus.
Anticamente sulla sua vetta vi si trovava il tempio più sacro per l’intera Lega Latina, il santuario di Giove Laziale o Iuppiter Latiaris. Viene da pensare che l’orientamento delle sepolture sia una forma di rispetto verso un luogo così sacro.
Oltre il Monte Cavo, all’orizzonte, la luce del sole incendia il mare. E a quel punto mi rendo conto di un altro fattore importante: Sud Ovest è la direzione precisa in cui il sole tramonta nel Solstizio d’inverno.
La prima forma di spiritualità delle popolazioni preistoriche consisteva nel culto dei ritmi naturali e moltissime delle pratiche religiose attualmente ancora vitali, affondano le radici in queste tradizioni ancestrali.
Il quadrante Sud Ovest richiama la morte delle luce: il sole comincia a tramontarvi con l’Equinozio d’ Autunno (che, in base agli anni, avviene intorno al 23 settembre), giorno che segna l’inizio del periodo più oscuro del calendario.
Questa fase di tenebra culmina nel giorno in cui l’oscurità ha la meglio sul sole, generando il giorno più buio dell’anno, ovvero il Solstizio d’Inverno (21 o 22 dicembre).
L’astro solare, quintessenza della vita, che viene inghiottito dalle tenebre è la metafora perfetta della morte.
Mi trovo, de facto, nell’Oltretomba.
Sono in uno spazio in cui ho ammirato tanti tramonti mozzafiato, senza mai realizzare che in realtà stavo osservando la scomparsa del Sole dentro al mare, il suo ingresso negli Inferi. E intorno a me vibrano le anime di coloro che si sono tuffati con lui.
Abbandono il Regno dei Morti, è il momento di proseguire l’ascesa verso la cima.
Continuando lungo il basolato il bosco si apre su di una grande struttra che si staglia sulla destra: è il Tempio di Ercole.
Questo luogo funge da raccordo fra l’area adibita alle sepolture e la parte del Tuscolo che, in epoca romana e medievale, rappresentava invece il cuore pulsante delle popolazioni qui stanziate.
Il Tempio di Ercole per lungo tempo è stato scenario di culti satanici, in particolar modo a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del Novecento.
Accadeva di vedere luci o di sentire tamburi suonare a notte fonda. Spesso la mattina venivano ritrovati i resti lasciati dalle sette, quali immagine sacre cristiane deturpate, croci rovesciate, tracce di sangue.
Io stessa, che all’epoca ero nel pieno della mia infanzia, ricordo l’allarmismo che si era diffuso in merito alle Messe Nere. Se ne parlava moltissimo e i fenomeni di questo tipo imperversarono fino alle prime luci del 2000 in tutti i boschi dei Castelli Romani e il Tuscolo sembrava uno dei luoghi preferiti per i rituali.
Dal punto di vista della collocazione geografica il Tempio è una sorta di cerniera, un punto di contatto, fra la dimensione metafisica e quella concreta della vita quotidiana.
Scendendo verso il basso, verso Sud Ovest, ci si ritova nell’Aldilà, lungo il fianco che è illuminato dal Sole solo quando questo sta compiendo la porzione discendente della sua parabola. Si tratta del versante oscuro, yin, secondo la filosofia taoista.
Salendo verso l’alto, verso Nord Est, ascendiamo in direzione dello yang. Il fianco radioso e illuminato, dove si trova il centro cittadino.
Qui siamo nel mezzo, a cavallo fra due mondi. E appare dunque chiaro perché questo punto specifico abbia esercitato un così forte richiamo per chi cercava di mettersi in contatto con entità sovrannaturali, per quanto di natura malvagia.
È un varco, una di quelle feritoie di cui parlavo. Perdendo il controllo di se stessi, con trance indotte dall’alcol e dalla droga, si cerca di sfondare il portale e di oltrepassare la soglia.
Passo al di sotto degli archi del Tempio e guardo all’interno di uno degli ambienti in cui si sono svolti i culti dedicati al diavolo. Se qualcuno è riuscito ad abbattere quella barriera, non voglio sapere cosa possa avervi scorto.
Ora davanti a me si apre una piccola pianura. L’ambiente si fa luminoso, le cose appaiono concrete e ben delineate.
Davanti a me si apre la catena del Monte Artemisio, sulla destra troneggiano ancora il Colle Iano, i Campi di Annibale e l’imponente Monte Cavo.
Qui si trovano i resti dell’insediamento urbano di epoca romana nonché, nascoste fra la vegetazione, interessanti tracce di quella che appare come una civiltà rupestre, probabilmente espressione di quelle genti che popolarono l’area a partire dall’Età del Bronzo (XIV secolo a.C. circa).
Qui si erge, perfettamente conservato, un anfiteatro risalente al 75 a.C. armoniosamente incastonato nello scenario naturale. Intorno si trovano elementi architettonici che delineano i contorni dei foro con i suoi mercati e il sacello di Mercurio. Seguendo una stradina discendente si giunge fino all’imbocco dell’opera idraulica monumentale detta Fontana Arcaica, risalente al VI secolo a.C., dalla quale si accede a centinaia di metri di cunicoli che -passando al di sotto del foro e dell’anfiteatro- sfociano in una cisterna di fattura coeva.
Qui mi trovo nel cuore pulsante dell’esistenza di ogni giorno. Quella che si espleta attraverso la routine, quella costituita da concretezza e soddisfacimento di bisogni fisici e materiali. Quella in cui si consumano amori, odio, gioia, disperazione, gloria e disfatte. Quella che, a conti fatti, è il fondamento dell’umanità.
È l’incontro dello yin e dello yang, del bianco e del nero, lo sposalizio dei poli opposti che congiungendosi generano la vita.
Tuttavia manca ancora un polo da visitare, l’estremo yang, e per potervi entrare in contatto devo ascendere fino alla cima del Tuscolo.
La salita è sdrucciolevole, ma la vista vale la fatica.
Qui si apre una parte del panorama prima completamente nascosta dal picco del monte.
Il Monte Salomone, Monte Fiore, la catena massiccia dell’Artemisio e in lontananza i Monti Lepini e alla mia sinistra i Monti Prenestini. A sud l’onnipresente Mons Albanus e affianco a me i resti della cittadella medievale, vitale fino al 1191 d.C, data in cui il Comune di Roma ne ordinò la distruzione recidendo di netto le vestigia dei Conti di Tuscolo e tarpando bruscamente un insediamente radicato sul territorio da più di 2600 anni.
Un elemento colpisce il mio sguardo: una costruzione in pietra costellata di coppelle.
Queste incisioni rupestri semisferiche hanno origini antichissime. La loro funzione specifica ci è ignota, ma sappiamo che venivano scolpite in ambito sacro. In diversi casi si è appurato raffigurassero costellazioni, in altri che si trattasse di “contenitori” per l’aspersione di liquidi sacri, in combinazione con canaletti e vaschette anch’essi scolpiti nella roccia.
Le fattezze di questa struttura ricordano un dolmen, anche se la camera sembra piuttosto ricavata a partire da un masso erratico e non costruita attraverso la sovrapposizione di pietre.
La mano che ha scolpito questa roccia è la medesima che ha modellato gli elementi rupestri che si scorgono poco più a valle. Una cultura prelatina priva di menzione nei libri di storia locale.
Intorno scorgo altre tracce interessanti. Vasche, canali, rocce levigate. Il tutto ricavato senza che vi sia un singolo mattone o un muretto a secco: tutto è ricavato dallo strato roccioso che costituisce la cima del monte.
Seguo questi elementi che emergono dal terreno, giro intorno al picco, il quale ora sembra essere interamente scolpito e decorato.
Accarezzo le rocce. Mi arrampico. Mi lascio guidare.
Improvvisamente mi ritrovo su un qualcosa di strano, scendo e faccio due passi indietro per osservarla da lontano e coglierne i contorni.
Si tratta di scale. È una gradinata curva, come fosse l’inizio di una scala a chiocciola.
E intorno a me mura cesellate nella roccia, coppelle, vaschette, canali.
Tutto ha un’architettura peculiare, è uno stile che mi ricorda qualcosa che ho già visto. Con un piccolo sforza memoria, l’immagine si fa nitida: l’altare etrusco di Bomarzo, anche detto “piramide etrusca“. La geometria degli elementi, le curvature, i pattern e le irregolarità sono le stesse.
Rimango a bocca aperta. Sono stata in quel medesimo punto, sulla cima del Monte Tuscolo, decine e decine di volte ma non ero mai stata in grado di cogliere quesi dettagli. Perché li vedevo solo ora?
Mi accorgo che mi stava sfuggendo un elemento: al di sotto della scalinata si intravede una piccola stanzetta ricavata nella roccia viva.
Entro e mi accuccio. Davanti a me le montagne.
Ho un’intuizione e tiro fuori la bussola. Con sconcerto mi rendo conto che Monte Fiore da lì è perfettamente allineato con l’Est, mentre Monte Salomone è in asse con il Nord Est: i due rilievi incorniciano il quadrante direzionale in cui il sole sorge dall’Equinozio di Primavera (19 o 20 marzo) al Solstizio d’Estate (20 o 21 giugno). È la rinascita del Sole, la vittoria della luce sulla tenebra.
È il punto di più profondo contatto con una tensione spirituale che innalza verso l’Assoluto. È lo yang, la sua espressione massima.
Sono in un tempio, un punto di osservazione dei cicli naturali. Un luogo consacrato al sole nascente.
Mi volto verso sinistra: eccola lì, la gigantesca croce cristiana piantata sulla cima del Tuscolo. E la croce altro non è che il simbolo di un Dio che risorge dalle tenebre per tornare alla luce.
Il cerchio si chiude, il Tao è completo: ero partita dalla morte, dal Regno dei Defunti, per ascendere gradualmente verso la culla di una nuova vita.
Ci sono luoghi fortemente simbolici, portali d’accesso verso dimensioni che possono essere percepite solo mettendosi in ascolto, disponendosi al servizio dell’anima antica di questi spazi. Del loro genius loci.
Solo così si può accedere alla corripondenza simbolica soggiacente alla realtà e abbeverarci, per un breve istante, alla fonte del legame universale che salda insieme il Tempo e lo Spazio.
Ci sono tensioni e richiami che prescindono qualsiasi tempo e qualsiasi Credo codificato.
Sono marchiati a fuoco, nel profondo, un imprinting antico che accomuna tutta l’umanità e la proietta indietro nel tempo.
A quando eravamo animali selvatici che parlavano con gli dèi.
Nemora,
Alessandra