Il Villaggio Palafitticolo delle Macine di Castel Gandolfo

Immaginate di trovarvi sulla riva settentrionale del lago Albano, all’alba dell’equinozio di primavera del 2.000 a.C, durante la Media Età del Bronzo. Qui è localizzata una depressione di origine vulcanica, generatasi in seguito a una serie di eruzioni esplosive di tipo idromagmatico durante l’ultima fase eruttiva del Vulcano Laziale.
Le acque sono più generose e le sponde lambiscono un’area molto più ampia di quanto non facciano attualmente. Attorno a voi decine e decine di palafitte emergono la pelo lacustre, le loro silhouette in ombra con il cielo che va rischiarandosi tracciano i contorni di quello che sembra un branco di animali prestorici immobili, con le zampe immerse nelle acque.

Attuale scenario del Villaggio delle Macine, si notano chiaramente i resti delle impalcature lignee spuntare dall’acqua.

Il sole è rannicchiato oltre il cono di Monte Cavo, che in epoche future sarà venerato come la Casa del grande dio Iuppiter Latiaris. Il chiarore investe la superficie del lago, che si trasforma in un prisma con riflessi violacei. Il guizzo di un pesce, le increspature che silenziosamente mutano in piccole onde e muoiono sulla sabbia vulcanica, le fronde degli alberi che si agitano dolcemente. Poi la natura esala un sospiro, ed eccolo, dalla cima del monte spunta il disco solare. Prima solo uno spicchio luminescente, poi l’intero spettacolo iridescente.
Ecco, è sorto un nuovo giorno sul Villaggio palafitticolo delle Macine.

La scoperta

Il Villaggio delle Macine è considerato a oggi il più grande insediamento palafitticolo in Italia. La sua estensione stimata è di circa due ettari (A.l. Fischetti, P.a.j. Attema) e la datazione più precisa ipotizzata fa risalire il complesso a un epoca che va dal 2140 a.C., epoca del primo insediamento, al 1490 a.C, momento in cui l’abitato sarebbe stato abbandonato. Abbiamo già citato questo sito archeologico all’interno del nostro contenuto dedicato al fenomeno dell’allineamento equinoziale con Monte Cavo, qui richiamato a inizio articolo e dovuto all’esatto orientamento Nord-Sud ed Est-Ovest dell’impalcato, e nel contenuto dedicato alla Grotta di Battiferro.

Immagine dal paper “Il sito su impalcato ligneo del Villaggio delle macine a Castel Gandolfo”, Micaela Angle et Al. In giallo l’abitato e in rosso i punti di ritrovo dei singoli reperti. Le linee bianche demarcano i limiti del progressivo ritiro delle acque.

L’individuazione del villaggio si fa tradizionalmente risalire al 1984, grazie alla scoperta accidentale di un’ascia in bronzo, tuttavia risulta che il sito fosse già noto dagli anni 1960. A seguito del ritrovamento, l’area è stata indagata in maniera strutturata fino al 1995 e i numerosi reperti hanno confermato l’esistenza di un nucleo abitativo: macine di varie dimensioni (da qui il nome con cui il villaggio è noto), travi, tavolati in legno, attrezzi da lavoro, due punte in osso, un pugnale a base semplice, oggetti in rame e ceramica tra cui brocche, tazze, numerosi resti di fauna, nonché l’elemento più caratteristico di tutti e visibile ancora oggi, ovvero i pali lignei che costituivano le basi del villaggio sospeso sull’acqua.

Il ritiro delle acque e le nuove campagne di scavo

Dettaglio di palo ligneo.

Dal 2001 le condizioni climatiche e i prelievi di acque di falda hanno provocato una consistente riduzione dei volumi lacustri, al punto da lasciar spuntare dal pelo del lago i pali lignei (situati precedentemente ai 15 metri di profondità) e in alcuni casi lasciandoli totalmente scoperti in secca. Lo scenario che possiamo osservare nelle foto dell’epoca è tragicamente suggestivo, sembra quasi di vedere tante dita emergere dal fondo del lago, come se una creatura fantastica si stesse divincolando dal fondo melmoso per rivedere la luce.
Il passaggio da uno stato umido e anaerobico all’esposizione all’aria ha, naturalmente, costituito un grave pregiudizio per la conservazione del sito, provocandone il progressivo deterioramento. D’altro canto, il ritiro delle acque ha consentito un’indagine più agevole dell’area, che ha restituito un numero incredibile di testimonianze sulla vita quotidiana nel villaggio, quali grandi olle in ceramica e pesi per reti da pesca.
Le indagini archeologiche interrotte nel 1995 sono state riprese nelle campagne del 2001, 2009, 2012 e infine del 2016, le quali hanno visto alternarsi sullo scenario un team multidisciplinare al fine di disegnare un quadro completo del villaggio.

La vita nel Villaggio delle Macine

Ricostruzione moderna del villaggio palafitticolo preistorico sul lago di Fimon, Arcugnano (VI). Fonte: Vicenzatoday.it

L’importanza della scoperta del Villaggio è notevole in quanto ci si è trovati di fronte a un’istantanea di uno dei periodi di transizione preistorica più ricco di mutamenti culturali e sociali.
Come precedentemente menzionato, si individua chiaramente l’allineamento dell’impalcato impostato con orientamento nord-sud ed est-ovest:

    • nel settore settentrionale si è ritrovato un gruppo di tre dolia (grande contenitore, generalmente di terracotta) che seguono lo stesso allineamento dei pali, per i quali sembra verosimile ipotizzare la destinazione dell’area per conservazione e immagazzinamento di derrate: la notevole quantità di frutti -tra cui le corniole-, di legumi e cereali sembrerebbero confermarlo;
    • nel settore settore meridionale, invece, sono presenti una grande piastra di concotto combusto -rudimentale intonaco realizzato con intrecci di canne, ramaglie e argilla cruda, a scopo isolante – e i resti di una probabile scala in legno, i quali fanno ipotizzare la destinazione abitativa della zona.

Sono stati anche analizzati i pollini ritrovati nei resti, e si è rilevato come l’albero maggiormente presente all’epoca nei paraggi dell’insediamento fosse la quercia, specie oramai scarsamente rappresentati nei Castelli Romani a causa dell’onnipresente castagno (ne abbiamo parlato nell’articolo dedicato al Bosco del Cerquone).
L’estensione dell’insediamento e la ricchezza della stratigrafia lascia supporre che si sia trattato di un sito abitato stabilmente, a differenza degli insediamenti delle prime fasi del Bronzo medio nel Lazio frequentati da piccole comunità a economia mista, che si spostavano lungo i percorsi di fondovalle, in prossimità dei guadi, costituendo stanziamenti temporanei e di tipo stagionale.

Metallurgia

L’Età del Bronzo è caratterizzata dalla rilevanza che assume la lavorazione dei metalli, dapprima il rame e poi appunto il bronzo, una lega di stagno e rame. Lo stagno proveniva dall’attuale Inghilterra e, attraverso un commercio di scambio su lunghe distanze, giungeva nelle varie regioni d’Europa.
Questo favorì la nascita di nuove professioni e una maggiore diversità sociale e, contestualmente, sorsero problemi riguardanti la sicurezza e la difesa dei luoghi più ricchi di risorse. Inoltre la maggior disponibilità di beni determinò probabilmente un aumento della popolazione, come dimostrato dal numero crescente dei siti ritrovati: e quello del lago Albano è uno dei più ricchi.
Nel villaggio delle Macine spicca, accanto alla raccolta a di strumenti da lavoro consunti, il ritrovamento di una grande quantità  di oggetti di bronzo che, secondo le analisi chimico-fisiche, non sono state realizzate per essere utilizzate, ma probabilmente per essere offerte agli déi o impiegate per usi ritualistici (torneremo a breve su questo punto).

Immagine dal paper “Il sito su impalcato ligneo del Villaggio delle macine a Castel Gandolfo”, Micaela Angle et Al.

Le analisi condotte su metalli del Villaggio delle macine, inoltre, hanno individuato tecniche e composizioni simili, confermando la presenza di una produzione locale di strumenti quali asce, pugnali e altri mezzi da lavoro. D’altro canto, un indizio importante ci era derivato già dal toponimo “Battiferro” con cui era stata ribattezzata la grotta coeva sul costone orientale del lago.
La presenza di numerosi ornamenti in faïence (ceramica verniciata o smaltata) come perle e bottoni, è un ulteriore elemento a favore di una pirotecnologia evoluta nel sito.

Scambi e commercio

Non solo: provengono proprio dal Villaggio delle Macine le più antiche perle in vetro e ambra dell’Italia centrale. Un micro-frammento del vago di collana vetroso sottoposto ad indagini è risultato costituito da materiale omogeneo e completamente amorfo, ossia un vetro privo di inclusi cristallini; diverso perciò da tutti i materiali vetrosi coevi del centro-nord Italia ma tipico dei vetri Egizi e Medio Orientali. Le prime presenze di vetri in Italia si registrano al Sud e nelle isole e sono concomitanti all’attivarsi della navigazione egea nel Mediterraneo centrale, pertanto questo ci suggerisce un Villaggio delle Macine innestato all’interno del flusso di commercio dell’età del Bronzo Medio. L’analisi chimica sulla perlina in ambra, invece, ha permesso di identificare il materiale come succinite, un tipo di ambra di origine baltica.

Alimentazione

A partire dai reperti del villaggio delle Macine è stato possibile tracciare un quadro dell’alimentazione tipica degli uomini di 4000 anni fa in questa area. Essi consumavano carne, di allevamento (maiali, bovini ed ovini) o da caccia (cinghiali, cervi e caprioli), cereali (il farro, cibo nazionale dei Latini, e l’orzo), frutta (fichi, more e corniole), pesce (d’acqua dolce, pescato nel lago Albano stesso) ed anche tartarughe di terra.

Spiritualità

Le credenze religiose nel periodo compreso tra la fase del Bronzo Antico e la media età
del Bronzo è sono dominate dalle cavità naturali e dalle varie forme di culti in esse praticati in onore delle divinità ctonie (divinità generalmente femminili legate alla venerazione di déi sotterranei e personificazione di forze sismiche o vulcaniche) o forme rituali propiziatrici del raccolto. Tuttavia già in quest’epoca esistono diversi indizi di forme alternative di offerte e di luoghi di culto, come ripostigli con asce integre o con panoplia di armi, ricollegabili in alcuni casi alla celebrazione di un capo guerriero. Sono frequenti in questo periodo anche le forme di culto delle acque salutari, nonché sacri recenti collocati all’aperto, costituiti spesso da una serie di deposizioni votive ai margini di un’area di sommità abitata.
Tra la fine della Media Età del Bronzo e l’ingresso nell’Età del Bronzo Recente (1350 a.C. circa)
cominciano ad apparire rappresentazioni di esseri sovrannaturali che costituiscono un tramite tra l’uomo e vere e proprie divinità antropomorfe ultraterrene, derivate da iconografie proprie del Mediterraneo orientale, segnale inconfutabile dell’aumento degli scambi commerciali fra le due civiltà.
In questa fase dello sviluppo della civiltà era già consolidato da tempo uno strutturato culto dei morti, sappiamo che durante l’antica e media età del Bronzo la pratica funeraria prevalente in gran parte dell’Europa è quella dell’inumazione in fossa semplice o sotto tumulo.
Nei pressi del Villaggio delle Macine -a pochissima distanza dal Ninfeo Dorico, sul Monte Cucco- sorge la Necropoli del Pascolare, la quale però risulta appartenente a un periodo successivo (IX-VII secolo a.C.) in cui era già in uso la pratica della cremazione, come testimonia il ritrovamento di diverse urne cinerarie in loco.

Difficile ignorare, poi, l’incredibile ierofania che ha luogo in questo esatto punto del perimetro lacustre in corrispondenza dei due equinozi autunnale e primaverile, quando il sole sorge perfettamente in allineamento con la cima del sacro Monte Cavo.

Alba dell’Equinozio di Primavera, 20 marzo 2016.

L’individuazione di questo fenomeno si deve al ricercatore Sandro Pravisani, fondatore del progetto Geografia Sacra, che nel suo testo La Signora dei Lupi – Geografia Sacra e culti del Sole nel Lazio Antico mette in relazione questa occorrenza con due importanti indizi restituiti dall’analisi dei resti emergenti dalla torba del lago:

  • una grande quantità degli animali da allevamento uccisi (capre, pecore e suini) presso il Villaggio delle Macine è stato macellato in giovane età, caratteristica tipica di sacrifici rituali;
  • nell’area sono state ritrovate tracce di coltivazione di Papaver Somniferum, il papavero da oppio, il cui utilizzo in epoche antiche è documentato sia per fini medicinali, sia come sostanza dagli effetti psicoattivi impiegata nel corso di celebrazioni ritualistiche per favorire visioni e stato di trance.

Ricordiamo, inoltre, che parte del bronzo prodotto nel Villaggio non prevedeva probabilmente un utilizzo pratico, ma plausibilmente ricopriva la funzione di offerta sacra agli déi, forma di culto registrata in diversi siti coevi.
Il ruolo di centro di riferimento per i villaggi circostanti attribuito dagli autori al nucleo palafitticolo e le analisi archeologiche, inoltre, suggeriscono la possibilità che questo luogo fosse stagionalmente animato da un afflusso di individui “non residenti” in visita. In sostanza, è plausibile l’ipotesi che il Villaggio delle Macine costituisse un polo di pellegrinaggio proprio in virtù di quella ierofania equinoziale che appare magica ancora ai nostri occhi.

L’abbandono

Gli studi hanno stabilito che gli abitanti del Villaggio delle Macine, con il taglio indiscriminato degli alberi, si resero responsabili di un drastico impoverimento della vegetazione della zona immediatamente prossima al villaggio: d’altro canto l’indole dell’essere umano non cambia, nonostante lo scorrere dei millenni. Tuttavia la fine di questo stanziamento non fu provocata dalla deplezione di risorse naturali, come avvenne -per lanciarci in un parallelismo estremo- a Rapa Nui, l’Isola di Pasqua.
Sembra, di fatti, che l’abitato sia stato abbandonato prima del XV secolo a.C. in seguito ad un innalzamento del livello del lago, repentino e progressivo quanto l’abbassamento delle acque ora in corso. La stessa realizzazione del Villaggio in prima istanza, in realtà, era stata causata da una passeggera contrazione dei livelli dell’acqua. Questi mutamenti, stando alle indagini geologiche, sarebbero resi possibili dalla presenza, sotto la falda acquifera del lago, della camera magmatica dell’antico Vulcano Laziale, tutt’oggi animata da iniezioni di lava che si manifestano con attività di vulcanesimo secondario (per ulteriori informazioni rimandiamo all’articolo sulla cosiddetta “Pietra Fattona” di Castel Gandolfo). L’ambiente, in sostanza, era divenuto ostile e la vita nelle abitazioni palafitticole non era più sostenibile: volendo fare della retorica spicciola potremmo affermare che forse l’ecosistema aveva semplicemente trovato un modo per scrollarsi di dosso una comunità infestante di Sapiens.
Quanto detto vale per il primo abbandono, quello in epoca preistorica. Oggi questo sito dall’inestimabile valore sta subendo un secondo abbandono, questa volta volontario, a opera della collettività. Le problematiche legate alla conservazione delle strutture lignee sono più che evidenti, in quanto il legno tende a polverizzarsi a causa degli agenti atmosferici.
Le flebili iniziative per tentare di preservare l’area sono state inefficaci e attualmente l’intero sito versa in uno stato di totale incuria. Negli ultimi anni i resti del Villaggio sono stati sommersi da un canneto spontaneo, oggetto di un incendio doloso nel gennaio del 2023. Le fiamme hanno portato via con sé, oltre alla vegetazione di cannucce, anche parte dei preziosissimi pali originali, conficcati nella sabbia 4.000 anni fa.
Resta poco di questo tesoro, gli ultimi scampoli di quello che fu un florido abitato affiorano timidamente dal pelo dell’acqua: nel giro di 40 anni si è consumata l’iperbole di una gloriosa riscoperta, seguita da un vergognoso degrado.
Questa storia ricorda tristemente le vicende delle due navi di Nemi, faticosamente estratte dalle acque e infine perdute in secca, a causa di un incendio presso il Museo delle Navi Romane.
Parte dei reperti prelevati dal Villaggio sono conservati, assieme a molti altri pezzi preistorici provenienti dai Colli Albani, presso il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini di Roma, altri resti sono visibili presso il Museo delle Navi di Nemi.
Lungo la sponda settentrionale del lago rimane un genius loci spogliato della propria ricchezza e gettato in pasto alla decadenza. L’auspicio è che la mano dell’uomo si plachi è che i livelli lacustri si sollevino di nuovo, tornando ad abbracciare le antiche fondamenta lignee come prima del 2001. Appare evidente che le acque scure dei due laghi sono in grado di proteggere e conservare le nostre radici molto meglio di quanto pensiamo di saper fare noi stessi, che ci avventiamo sul territorio come locuste sui campi.

Alessandra

Bibliografia:

  • Il sito su impalcato ligneo del Villaggio delle macine a Castel Gandolfo – M. Angle et Al.
  • La Signora dei Lupi: Geografia Sacra e culti del Sole nel Lazio Antico – Sandro Pravisani
  • Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna – Luciana Drago Troccoli
  • Alle Pendici Dei Colli Albani: Dinamiche Insediative E Cultura Materiale Ai Confini Con Roma – A.l. Fischetti, P.a.j. Attema
  • Villaggio delle Macine: le più antiche perle in vetro e ambra dell’Italia centrale – Paolo Bellintani, Ivana Angelini, Gilberto Artioli, Angela Polla
  • https://www.repubblica.it/online/cultura_scienze/albano/albano/albano.html
  • http://archeologialazio.beniculturali.it/getFile.php?id=806
  • https://it.wikipedia.org/wiki/Villaggio_delle_Macine
  • https://www.castellinotizie.it/fotogallery/lago-albano-abbattuto-il-boschetto-del-villaggio-delle-macine/

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *