Monte Compatri è uno dei sedici paesi che compongono i Castelli Romani, o Colli Albani. Situato a un’altitudine di 570 metri, consta di una popolazione di 12.000 cittadini e sorge su di una collinetta vulcanica. La cittadina da un lato è sovrastata dal verde brillante Monte Tuscolo e dalle mura ieratiche del santuario di San Silvestro, mentre dall’altro lato digrada dolcemente verso Monte Porzio Catone e Roma, in un rincorrersi di vigneti e campi. Il suo territorio è interessato da un’estesissima variazione altimetrica e il paese vanta un’incredibile varietà di altitudini che si estende dai 778 metri di Monte Salomone ai 58 metri di Pantano Borghese.
Da Labicum a Monte Compatri
Monte Compatri è una cittadina piccola ma dalla tradizione antica. Le teorie archeologiche collocano il suo nucleo abitativo primigenio sul Monte Salomone e fanno combaciare la sua identità con quella di Labicum, colonia della leggendaria Alba Longa. Nel V secolo a.C., perciò, questa area vedeva la presenza di una popolazione organizzata in un sistema societario complesso. Secondo la leggenda la città di Labicum sarebbe stata fondata da Glauco, figlio del re cretese Minosse. Virgilio -nell’Eneide- definisce i Labici come guerrieri dotati di “scudi dipinti”, alleati di Turno contro Enea.
La storia di Monte Compatri, nel corso del medioevo, è stata dominata dai grandi nomi delle famiglie più potenti del Centro Italia: i Conti di Tuscolo, gli Annibaldi, i Colonna, gli Altemps i quali -infine- nel XVI secolo vendettero il feudo ai Borghese.
Percorrendo le vie del paese o passeggiando nei sentieri boschivi, perciò, è facile imbattersi in tracce di una passato che ha intagliato secolo dopo secolo il profilo di questo borgo.
Come spesso accade -tuttavia- il mio incontro con uno dei luoghi più affascinanti che questo comune annovera è avvenuto per puro caso, disobbedendo ai comandi del navigatore GPS e avventurandomi in auto alla ricerca di una scorciatoia per tornare a casa.
Di lì a poco mi trovai in un senso unico, davanti a un alto cancello sigillato. Accanto, un cartello recitava “Parco Karol Wojtyla“.
Era evidente che avessi sbagliato strada, ma prima di poter fare inversione e tornare indietro il mio occhio venne rapito dall’alta parete tufacea che si stagliava dietro al cancello. Sembrava lavorata in modo peculiare e il mio sesto senso incominciò a suggerire che ci fosse qualcosa di particolarmente interessante in quel parco.
Quel giorno -però- non avevo modo di proseguire l’esplorazione, così decisi di ritornare alla prima occasione utile e l’occasione si ripresentò di lì a pochi mesi. Stavolta mi recai sul posto dopo aver svolto alcune ricerche che confermarono il mio “sentore”.
San Francesco e il Romitorio
La toponomastica serba i segreti più reconditi delle città: nomi di vie che apparentemente non suggeriscono nulla, sono i migliori custodi delle memorie locali.
Una delle stradine principali di Monte Compatri è nominata Via San Francesco d’Assisi. Una “Via San Francesco d’Assisi” come ce ne sono tante in Italia.
Via San Francesco d’Assisi sfocia nel suo ultimo tratto in Via del Romito ed è proprio qui che sorge il Parco Karol Wojtyla. Questa area, precedentemente nota come Parco del Romito, è ufficialmente chiusa al pubblico se non in occasione speciali quali festival, rassegne teatrali, cinematografiche o altri eventi patrocinati dal comune.
Quello che colpisce immediatamente l’occhio è l’alto costone di tufo che fa da sfondo al grande spiazzo verde, il quale -a sua volta- fronteggia a ovest un panorama mozzafiato, slanciato su Roma. Diverse decine di metri più su sorge l’abitato di Monte Compatri, dove le case si affacciano su questo salto nel vuoto.
La parete, però, non è regolare e reca al suo interno diversi segni di escavazioni. Esattamente al centro del muro roccioso si trova una caverna tappezzata di muschi, all’interno della quale spicca un altare affrescato: è in questa grotta che San Francesco d’Assisi trovò rifugio nel 1222, da quel che riportano i documenti dell’epoca. Il fervente mistico trova in questo luogo l’ambiente perfetto per meditare in solitudine e ricercare il contatto con la dimensione divina.
Chiama a sé tre suoi confratelli -frate Angelo da Monte Leone, frate Rinaldo da Rieti e frate Santo da Parma- i quali fecero della grotta un vero e proprio Romitorio. Dimorarono qui per diverso tempo, finché non decisero di spostarsi sul Colle di San Silvestro, dove fondarono il santuario i cui resti sono ancora visibili ai giorni nostri. Già questo basterebbe a rendere il Parco del Romito incredibilmente suggestivo, ma c’è dell’altro.
Osservando meglio la caverna del Romitorio, di fatti, si notano delle logge scolpite nella roccia. Delle nicchie dalla forma perfettamente rettangolare. Ricordano un po’, in realtà, la sagoma di una bara.
Il cimitero di rupestre del Romito
È complicato dire cosa avvenne qui nei sei secoli che seguirono l’abbandono da parte dei frati, in quanto non esistono attestazioni scrtte focalizzate su questa area.
Tuttavia, possiamo affermare con sicurezza che Napoleone il 12 giugno del 1804, con la ratifica dell’editto di Saint-Cloud, dispose che gradualmente le tombe venissero poste al di fuori delle mura delle città, ricollocate in luoghi soleggiati e arieggiati e che fossero tutte uguali, al fine di dare ai morti pari dignità senza discriminazioni.
Nel 1869 il vecchio cimitero di Monte Compatri, situato all’interno delle mura del castello della città, venne dismesso e le tombe furono spostate nel luogo in cui anticamente sorgeva il Romitorio di San Francesco. Quelle nicchie, quelle loggette davanti cui mi trovavo, erano quel che restava delle decine e decine di tombe incassate direttamente nella roccia escavata.
A guardarle da una certa distanza, quell’affastellarsi di sagome regolari fa pensare a un alveare.
Facendo alcuni passi indietro, uscendo dalla zona d’ombra circoscritta dalla grotta e tornando a dispormi al di sotto alla parete perfettamente verticale, noto che all’estrema sinistra le nicchie proseguono con una certa regolarità, mentre nel resto della parete la superficie risulta regolare e liscia. Salvo alcune fissurazioni, delle crepe che si affacciano su antri scuri. Appare evidente che parte del costone escavato è stato “sigillato” per ragioni di sicurezza.
Estraggo la torcia dallo zaino e mi immergo nel buio. È come entrare in una catacomba, intorno a me tante bocche spalancate ad accogliere i resti mortali di cui sono state depredate.
Questo cimitero è stato ufficialmente chiuso nel 1926 in virtù del nuovo luogo di sepoltura destinato alla popolazione locale, situato lungo la strada che conduce a Rocca Priora.
La bonifica del cimitero del Romito si svolse tra il 1952 e il 1958, periodo in cui le salme vennero spostate una a una, tuttavia sembra che quest’opera non fu mai completata e che il sottosuolo conservi ancora gelosamente parte dei resti umani.
Osservando dall’esterno la parete, che ormai appare sempre di più come la reminiscenza di un antico favo, cerco di immaginarmi che aspetto potesse avere all’epoca in cui il cimitero era attivo e frequentato.
L’atmosfera è serena, intorno solo un leggero alito di vento che smuove le conifere in lontananza, i grilli suonano un rassicurante requiem in sottofondo. Nonostante il caldo intenso (sono le 12 di un giorno soleggiato di luglio) mi pervade una sensazione di pace profonda. Entro ed esco dalle cavità, illuminando punti troppo stretti, in cui è impossibile strisciare. Chissà cosa nasconde ancora il tufo.
Il tufo, lo stesso materiale in cui le grandi popolazioni del passato hanno scavato le loro dimore eterne, uno su tutti: gli Etruschi. Ma non solo. Moltissime culture del Centro e del Nord Italia hanno affidato le memorie delle vite umane perdute a questa roccia vulcanica.
Mi volto verso il paesaggio, a Ovest, la direzione del sole morente, associata alla dimensione dell’Aldilà.
Aggirarsi fra le sepolture antiche con una bussola alla mano porta spesso a scoprire che gran parte delle tombe sono orientate a Occidente. Il tufo, i volti dei morti rivolti verso il sole calante. Tutti elementi ricorsivi.
Di questo luogo non si sa molto se non degli episodi più celebri legati, per l’appunto, al soggiorno di Francesco d’Assisi e alle vicende circa lo spostamento delle tombe al di fuori delle mura cittadine.
Ma al di là dei registri del feudo, questo luogo sussurra di una storia più antica. Una storia che si slancia verso un’epoca in cui gli uomini parlavano agli dei e li chiamavano con i nomi degli elementi naturali.
E chissà che le spoglie medievali e ottocentesche ancora nascoste nel Cimitero del Romito, non osservino il tramonto da questa posizione privilegiata -racchiuse nel cuore tufaceo della terra- accanto ai loro fratelli scomparsi di migliaia di anni fa.
Alessandra di Nemora