Il Ninfeo del Bergantino è situato sulle rive del Lago Albano di Castel Gandolfo, fra il Ninfeo Dorico e l’emissario dello specchio d’acqua, non lontano dall’antico porto localizzato nella zona oggi denominata “Quadri“, così chiamata a causa dei resti visibili della costruzione in opus quadratum sia della banchina che della piattaforma di attracco.
Noto anche con il nome di Ninfeo di Diana o Bagni di Diana, questa struttura costituisce un eccezionale esempio di architettura romana integrata nel paesaggio naturale. Risalente al I secolo d.C., era originariamente parte integrante della villa imperiale dell’imperatore Domiziano.
L’accesso da Via dei Pescatori è interdetto da un primo piccolo cancello, alle spalle del quale si apre un lungo corridoio oscurato dalle piante. Il percorso, in breve, conduce all’inferriata che occlude la bocca del ninfeo. L’ingresso in questo ambiente è caratterizzato dalla sensazione di violare un luogo votato a un silenzio millenario. Rispetto al Ninfeo Dorico, ampio e luminoso, il Ninfeo del Bergantino risulta essere una sorta di piccolo mondo sommerso, un universo sottomarino. Umido, gocciolante. Dove la terra diventa sabbia antica e i muschi mutano in corallo.
Scopriamo di più sulla sua storia.
Domiziano e la Villa Imperiale sul Lago Albano
Domiziano, ultimo imperatore della dinastia Flavia, è ricordato non solo per il suo controverso governo, segnato da accuse di dispotismo e da una fine violenta, ma anche per il suo grande mecenatismo e l’imponente programma edilizio. Durante il suo regno (81-96 d.C.), l’imperatore intraprese un ambizioso piano di rinnovamento urbano e rurale, che incluse la costruzione di templi, archi trionfali e sontuose ville imperiali, tra cui quella di Castel Gandolfo, nota come Albanum Domitiani o Albanum Caesaris. Questo complesso, di cui il Ninfeo del Bergantino era parte integrante, rappresentava uno dei più fastosi esempi di residenza imperiale del tempo.
Situata in una posizione strategica e panoramica sulle rive del Lago Albano, la villa rifletteva il gusto per il lusso e l’attenzione alla natura tipici delle residenze imperiali. Collocato fra l’attuale abitato di Castel Gandolfo e il Colle dei Capuccini, il complesso era strutturato su tre piani e altrettanti terrazzamenti. Domiziano, grande amante delle arti e delle scienze, commissionò decorazioni e architetture che celebrassero la sua immagine divina e il suo legame con gli dei. Nonostante il suo assassinio e la successiva damnatio memoriae, molte delle sue opere, come il Ninfeo del Bergantino, fortunatamente sopravvissero, testimoniando il suo contributo duraturo all’architettura romana.
Il grande storico Plinio ricorda l’imperatore come un uomo di indole pavida e cita una sua particolare idiosincrasia, ovvero il timore di morire annegato, fobia che lo conduceva a richiedere misure di sicurezza esagerate ogni volta che solcava le acque del lago Albano. Ecco come l’autore confronta il pauroso Domiziano alla fierezza di Traiano:
Quanto fosse diverso (Traiano) da Domiziano, il quale non poteva sopportare né la tranquillità del lago Albano né l’ozio e il torpore di Baia e il silenzio della terra, né tollerava almeno il movimento e il rumore dei remi senza rabbrividire ad ogni colpo per una vile paura. Perciò, lontano da ogni suono, lui stesso rimaneva immobile e saldo.
Plinio, Il Panegirico di Traiano.
Di sicuro, non una descrizione di cui andare orgogliosi.
Origini e costruzione del Ninfeo del Bergantino
Come anticipato, il Ninfeo del Bergantino è stato realizzato nel I secolo d.C. e rappresentava un elemento cardine della villa di Domiziano. Questo si sviluppa all’interno di una grotta scavata nel peperino, una pietra vulcanica tipica dei Colli Albani. Si ipotizza che la cavità costituisse inizialmente una crepa naturale nel fianco del cratere e che anticamente sia stata impiegata già come cava per materiale da costruzione. La lavorazione del peperino, materiale resistente ma modellabile, testimonia una conoscenza approfondita delle risorse locali e delle loro applicazioni architettoniche. La sua posizione privilegiata suggerisce un’intenzionale connessione visiva e simbolica con il Lago Albano, elemento che doveva accentuare il carattere monumentale del complesso. Al tempo, prima che venisse costruito il muro che attualmente impedisce il libero accesso al Ninfeo, dal suo interno era anche possibile scorgere direttamente la vetta del Monte Cavo, sede antica del Tempio di Giove Laziale, simbolo della potenza della Lega Latina, in un gioco di richiami fra il vecchio e il nuovo centro del potere e in comunicazione diretta con la fonte divina.
La pianta semicircolare e le tecniche costruttive, tra cui spicca l’opus mixtum, riflettono chiaramente i canoni dell’architettura domizianea e ciò che consentì un’attribuzione certa nella collocazione temporale e nella funzione del luogo a differenza di quanto avvenne con il Ninfeo Dorico, il quale inizialmente fu interpretato come un sacellum.
La struttura degli ambienti, inoltre, suggerisce distintamente un utilizzo strategico delle acque, elemento centrale nella progettazione, con complessi sistemi di canalizzazione che garantivano un flusso costante e scenografico all’interno dell’ambiente, con zampilli e giochi d’acqua. Dalla piantina si rintraccia distintamente la presenza di un’ampia vasca centrale di forma circolare, al centro della quale svettava un gruppo marmoreo.
Gli scavi archeologici del 1841
Grazie agli scavi condotti nel XIX secolo, oggi possiamo avere un’idea chiara delle decorazioni che costellavano l’ambiente. Queste indagini ebbero avvio da una prima iniziativa abusiva: nel 1841, di fatti, un certo Giovanni Merolli (locandiere in Piazza di Spagna, Roma), con il pretesto di fare delle ricerche di antichità nel terreno di proprietà di Gaspare Grandjaequet di Albano, in zona Orziero, si intrufolò e scavò invece nell’area adiacente, mettendo allo scoperto l’intero ninfeo, che precedentemente giaceva in parte sepolto. La sua azione venne intercettata e denunciata dal Prefetto di Castel Gandolfo, occorrenza che segnò l’inizio di un lungo processo che terminò solo 10 anni dopo, nel 1851. Infine, il Cardinale Camerlengo, mosso da clemenza, decise di concedere a Merolli un compenso e l’autorizzazione a procedere gli scavi a condizione che consegnasse tutti gli oggetti rinvenuti, di fatto ancora oggi preservati presso il Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo. L’uomo accettò, fornendo in seguito una dichiarazione dettagliata dei ritrovamenti, sulla base della quale abbiamo raccolto le informazioni che presenteremo di seguito.
L’esplorazione iniziale si concentrò principalmente sull’area della grotta, dove furono rinvenuti frammenti di mosaico dai motivi marini e il celebre gruppo scultoreo raffigurante Polifemo, oggi conservato all’interno del criptoportico della Villa di Domiziano, presso i giardini di Villa Barberini.
Trascrivo fedelmente la descrizione della conformazione del ninfeo riportata da Giuseppe Lugli nel documento Lo scavo fatto nel 1841 nel ninfeo detto Bergantino sulla riva del lago Albano, Roma all’interno del Bullettino della commissione archeologica di Roma; Ermanno Loescher (1913):
“Sebbene la grotta abbia l’apparenza di una completa asimmetria, tuttavia il bacino circolare quasi perfetto che è nel mezzo, mostra come vi sia stato un leggero adattamento per ricavarvi almeno una forma artistica. I muri di rivestimento, alzati per tutta l’altezza della grotta, sono generalmente in reticolato a ricorsi laterizi; i pilastri e i rinforzi in soli laterizi; gli archi interni della volta e il grande arco frontale d’ingresso verso il lago sono in bipedali; la volta è di roccia naturale solamente intonacata. Le nicchie, poste a decorazione delle pareti, hanno forma varia: le più grandi sono quelle della parete quasi rettilinea di destra, di cui le prime tre sono rettangolari, e la quarta semicircolare, alte e strette ; le altre della parete di sinistra sono più piccole e quasi quadrate, e hanno la copertura in bipedali posti a taglio. Il ninfeo è quasi diviso in due piani: un grande bacino circolare occupa il primo piano, contornato all’ ingiro da una specie di banchina praticabile, rivestito in origine di fine musaico; nel fondo del bacino vi è un rialzo di più di un metro, e una scaletta alla destra, a ridosso del muro, conduce dal primo al secondo piano; questo è ornato con due grandi nicchioni forniti di nicchie minori, e ha l’aspetto di un podio prospiciente sul bacino rotondo; nel pavimento si notano avanzi di vasche posteriori.”.
I mosaici e le sculture
Come tipicamente avviene nei ninfei, l’obiettivo di questo luogo era quello di ricreare l’ambiente marino ed evocare le figure mitologiche e divine che lo popolano, pertanto gran parte delle decorazioni riprendono questo motivo.
Le superfici interne erano riccamente decorate con mosaici raffiguranti creature marine, in parte ancora incastonati nella pavimentazione in loco, evocative del dominio dell’acqua come simbolo di prosperità e potere. Le immagini dipingevano scene gloriose animate da gorgoni, tritoni, nereidi (le ninfe dei mari), pesci, fondali popolati da alghe e piante marine.
Spicca, in particolare, un frammento così descritto nel rapporto originale del 1841:
“Più in alto, distinti dal Gorgoneion per mezzo di alcune ombreggiature, indicanti forse onde del mare, si vedono quattro cavalli in corsa, con i musi rivolti verso il muro esterno del ninfeo, unici avanzi di una quadriga, nel resto totalmente perduta. L’altezza approssimativa dei cavalli era di m. 1,70, e di essi ancora si distingue la parte di un collo, con la bardatura e il singolare pendaglio in forma di mezzaluna. La quadriga, detta di Diana negli atti della Commissione, trasportava certamente la nota figura della dea lunare, che si alza dal mare, apportatrice di nuova luce. Perciò i cavalli si trovano figurati nella forma reale, e non sotto spoglie favolose o marine.”
È proprio in questo ritrovamento riscontriamo l’origine della denominazione alternativa “Bagni di Diana” per indicare il ninfeo del Bergantino: la dea Diana, indissolubilmente legata al lago di Nemi, è omaggiata anche sulle sponde del lago Albano.
Trovarsi all’interno della grotta e immaginarsi attorniati da tanta meraviglia, nei suoi colori più vividi, fa sognare. I muschi si ritirano dalle pareti, l’acqua riempie la grande vasca nella sala, le fontane tornano a zampillare. Ed ecco, proprio lì al centro della grande vasca, il pezzo forte della scenografia: il gruppo marmoreo colossale che ritrae Polifemo accecato da Ulisse.
Già ritrovata nel corso dei primissimi scavi del Merolli, di questa imponente scultura in marmo bianco ci restano dei frammenti fra i quali spicca una “[..] figura giacente, poggiata sul terreno che è raffigurato nel marmo che le fa da sfondo. Presenta caratteri di persona anziana, barbata, dormiente; ha gli occhi chiusi e la fronte corrugata in una espressione di serietà e robustezza, forzata dal dolore; nella fronte si apre un terzo occhio a guisa di un solco, lungo e profondo, con le labbra sporgenti. Il petto è ricoperto di folto pelo che le scende fino all’ombelico[..]”. Proprio lui, Polifemo, figlio di Poseidone e di Toosa, ninfa dei mari, che pasce solitario le sue pecore, vive in una grotta, che si nutre -all’occasione- di essere umani.
Vicino alla testa del ciclope figura un ramo sfrondato a mo’ di bastone. Dal capo alla vita, questo marmo misura circa 6 palmi, ovvero circa 133 cm, indice di quanto dovesse essere imponente il gruppo nella sua integrità. Nei pressi del Polifemo, vengono recuperati altre porzioni di statue: una siringa (ovvero una sorta di flauto di Pan); un busto virile, muscoloso, confacente con l’iconografia di Ercole; una testa di ariete; porzioni di un cavallo e di un montone; il resto di un presunto Ganimede; il torso di un fauno; bassorilievi con cavallucci marini e numerosi frammenti secondari. In sostanza, gli elementi scultorei che impreziosivano il ninfeo erano numerosi, tuttavia il palco principale spettava proprio alla scena dell’accecamento di Polifemo con la trave infuocata, a opera di Ulisse, che lo sorprende mentre dorme ebbro e satollo nella sua grotta.
L’attribuzione data dalla Commissione dello scavo fu contestata da alcuni studiosi, che ritenevano fosse corretto attribuire la figura colossale a Prometeo, legato sul Caucaso come punizione inflitta da Giove per il furto del fuoco, o a Orione, il giovane gigante ucciso da Diana con una freccia in quanto colpevole di aver violato la sua pudicizia. A conti fatti, però, il terzo occhio situato sulla fronte e la presenza del flauto, attributo tipico del pastore Polifemo, sembrano confermare l’ipotesi primaria. Ma perché proprio la scelta di questo soggetto come protagonista della scenografia?
Prima di tutto, integrare un topos mitologico in questo contesto consentiva di celebrare un legame fra l’imperatore e la cultura classica. In seconda battuta, la sconfitta di Polifemo potrebbe rappresentare la vittoria imperiale sui nemici di Roma, che in quegli anni erano costituiti principalmente dai Daci e dalle tribù germaniche. Il ciclope, per fattezze ed estrazione, in sostanza costituirebbe una sorta di paradigma di ciò che è primordiale, incolto e antisociale o, in breve, non addomesticato.
Il trionfo di Ulisse sul rozzo essere costituirebbe, dunque, l’incarnazione del potere imperiale come forza civilizzatrice sulle sulle popolazioni barbare e sulla minaccia della natura.
Forse, comprese quelle acque lacustri, di cui Domiziano aveva tanto timore.
Funzioni e utilizzi nel tempo
In epoca domizianea il ninfeo serviva come spazio multifunzionale, unendo funzioni pratiche e simboliche in un contesto di grande rilevanza architettonica e sociale. Oltre a essere un luogo dedicato al relax privato dell’imperatore e della sua corte, il ninfeo era utilizzato per cerimonie ufficiali e ricevimenti, consolidando il suo ruolo di fulcro della rappresentazione del potere imperiale. Alcuni studi ipotizzano che il ninfeo potesse fungere già in epoca romana da rimessa per imbarcazioni, impiegate per le naumachie -spettacoli nautici- organizzate sul Lago Albano. Questa interpretazione è avvalorata dalla presenza di rampe e aperture architettoniche che suggeriscono un accesso diretto alle acque. Durante il XVII secolo, sotto il pontificato di Alessandro VII Chigi, il ninfeo venne riadattato definitivamente come deposito per imbarcazioni. Questo testimonia la continuità d’uso attribuita al sito nel corso dei secoli, sebbene con funzioni diverse rispetto all’origine. In continuità con il passato, anche oggi il terreno adiacente al Ninfeo è adibito a rimessaggio di canoe.
Origine del nome “Bergantino”
L’etimologia del termine è ancora dibattuta, riflettendo la complessità storica e culturale del sito. Alcune fonti lo collegano a un antico proprietario del luogo, ipotizzando che il nome possa derivare da un individuo o una famiglia connessi alla storia locale. Altri studiosi suggeriscono una relazione con il termine “brigantino”, un piccolo veliero utilizzato sul lago, il che potrebbe derivare dal legame con l’intensa attività nautica che caratterizzava il Lago Albano in epoche passate e l’uso attestato del luogo come deposito di imbarcazioni.
Conclusione
Oggi è possibile visitare il Ninfeo del Bergantino partecipando a uno dei tour guidati organizzati periodicamente. Per vedere i reperti raccolti sul luogo, come già accennato, dovrete recarvi presso il museo ospitato all’interno del Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo e nei giardini di Villa Barberini.
Il Ninfeo del Bergantino rappresenta un microcosmo affascinante, non solo per il valore archeologico intrinseco, ma anche per ciò in cui si è trasformato nel tempo. I fasti dell’epoca domizianea sono scomparsi, ma persiste nell’ambiente un’atmosfera solenne. Si avverte, soggiacente e annidata nella scura pietra vulcanica, l’eco della risacca di quel mare che Domiziano tentò di rievocare. Tornano alla mente i versi di John Keats, dalla poesia “Sul mare” (On the Sea):
Di sussurri immortali avvolge lidi desolati
E con ansito possente riempie mille caverne,
Sin che l’incanto d’Ecate non l’avverte
Di ritirarsi, e lasciarle all’ombra sempiterna
Colme di grida. Spesso è così felice
Che la sua calma per giorni e giorni non smuove
la conchiglia caduta, quando i venti del cielo
Liberi infuriano in tempesta acuta.
Oh tu che hai le pupille stanche e afflitte,
Nutrile dell’immensità del mare;
Tu che le orecchie hai stordite di volgare rumore
O troppo sazie di troppo ricche melodie,
Ascolta, sino a trasalire, ciò che dicono le vecchie caverne:
Il coro, sembra, delle antiche ninfe del mare.
E, nella notte, una nereide si affaccia dall’antica grotta e scivola silenziosamente nell’acqua del lago.
Alessandra
L’articolo è interamente basato sulle informazioni estrapolate dal Bullettino della commissione archeologica di Roma; Ermanno Loescher (1913) e in particolare dalla sezione Lo scavo fatto nel 1841 nel ninfeo detto Bergantino sulla riva del lago Albano a cura del Prof. Giuseppe Lugli (1890 – 1967). Ringrazio ancora sentitamente Roberto Fabiani per la condivisione della foto del Polifemo.