Nemi.
Un paese piccolo ma con una storia a dir poco monumentale alle spalle.
La sua eredità storica, religiosa e naturalistica è così grandiosa che evidentemente non si è mai stati in grado di gestirla. C’è talmente tanta materia da valorizzare che si è preferito optare per l’oblio generalizzato, per la dimenticanza collettiva di preziose testimonianze archeologiche.
Capita, perciò, di avventurarsi presso sentieri incolti e di incappare in ruderi -in stato di abbandono- non segnalati. Se una volta tornati a casa si ha la voglia di comprendere che cosa si è visto, risulta un’impresa molto ardua a causa delle poche e vaghe informazioni reperibili in rete.
L’incuria sta lasciando dei beni unici in mano all’erosione naturale e agli atti di vandalismo. Questo è ciò che sta accadendo sulla riva est del lago di Nemi. Personalmente ho scoperto accidentalmente i siti di cui mi accingo a parlare, riuscire a donargli un’attribuzione non è stato un processo semplice, le fonti sono rare e non sempre corredate da immagini.
Per raggiungermi dovete percorrere la strada del lungolago, superare l’imbocco del tempio di Diana, arrivare al piccolo abbeveratoio e proseguire poco oltre. Sulla vostra sinistra si inerpica una stradina che vi condurrà presso un grande cartello semidistrutto che recita“Sentiero del Tempio di Diana”. Mi raccomando: torce, abbigliamento comodo e scarpe da trekking, c’è da sporcarsi.
Da qui inizia il nostro viaggio, preparatevi a percorrere 4000 anni in 500 metri.
Ci avviamo verso la ripida salita, incontriamo subito sulla nostra destra una grande costruzione diroccata. Non vi è alcuno sbarramento, si può entrare.
Già dopo il primo passo si comprende di essere all’interno di una struttura con funzione legata al convoglio delle acque: siamo all’interno dell’acquedotto delle Mole. Argani, grandi ingranaggi e tubi, lo scheletro arrugginito della struttura è ben visibile.
Ci si può addentrare, salendo delle vecchie scale -in gran parte sgretolate- fino al secondo piano. Qui incappiamo in un ritrovamento inaspettato quanto macabro: un lumino cimiteriale, un cero rosso e alcune bottiglie che fungono da candelabro per piccole candele. Tutto disposto in circolo.
Davanti a noi si apre una splendida vista del lago.
Facciamo alcuni passi indietro, accendiamo le torce e proviamo ad esplorare gli altri ambienti della pericolante costruzione ma un ingresso murato frena la nostra curiosità. Scendendo di nuovo le scale possiamo, però, dare un’occhiata agli altri ambienti del primo piano e notiamo la presenza di un angolo dotato di una fornace.
Torniamo all’aria aperta, il tempo di fare due passi e osserviamo uno strano accumulo di terra sullo stesso lato dell’acquedotto. Arrampicandosi ci si può affacciare su alcuni cunicoli adiacenti alla struttura, probabilmente collegati e funzionali all’acquedotto stesso. Il terreno è franoso e scivolare nell’oscurità all’interno è cosa facile. Facendosi un po’ di coraggio si entra in una galleria sulla destra e -ancora una volta- si incappa in uno sbarramento in mattonato. Tornare in superficie risulta un pochino più faticoso del previsto. Questa area era anticamente nota come “Le Mole” per la presenza di mulini documentata fin dal XVI secolo.
Proseguendo ci si ritrova davanti a una parete di roccia vulcanica sgombra dalla vegetazione, sulla quale si aprono dei piccoli ipogei artificiali. Alcuni sono spaziosi e collegati fra loro, altri molto angusti: si tratta di una necropoli appartenente alla seconda fase del Ferro Laziale. Le tombe davanti a cui ci troviamo risalgono, perciò, all’incirca al 1000 a.C. e furono riutilizzate più volte come sepolture anche in epoca arcaica e cristiana. Queste quattro sono quelle più chiaramente visibili tuttavia, inerpicandosi nel fitto del nemus, se ne possono trovare tantissime altre. Durante le indagini archeologiche effettuate nel corso dell’Ottocento, all’interno delle grotte del costone sottostante il centro abitato, sono stati rinvenuti circa quaranta corredi funerari costituiti in gran parte da un semplice vaso posto vicino al capo del defunto.
Qui il sentiero curva a gomito e, passo dopo passo, si apre alla vista un’enorme massa di ruderi.
Distinguere una a una le strutture non è semplice, il verde del bosco annienta i confini e nei secoli spesso strutture nuove sono andate ad inglobare quelle più antiche.
Possiamo però sostenere con una certa sicurezza che l’alto rudere diruto che spicca in altezza, sia la famosa chiesa paleocristiana di San Nicola. La particolarità di questo luogo di culto risiede nella sua data di costruzione: 313 d.C. Quello stesso anno l’imperatore Costantino, con l’Editto di Milano, poneva fine alle persecuzioni verso i cristiani e sanciva la neutralità dell’Impero verso ogni religione. In sostanza quella di San Nicola si qualifica come una delle primissime chiese edificate dopo la liberalizzazione del cristianesimo, il suo valore storico è inestimabile.
Accanto ai resti della chiesa sono visibili i resti di un complesso articolato, formato da absidi, archi, cunicoli e mura costruite con diverse tecniche. Si tratta del complesso termale della Ninfa Egeria, in attività dal I secolo a.C. al IV d.C.
La costruzione si perde e scompare fra l’edera e i detriti, ma si notano le sagome che proseguono a perdita d’occhio nel bosco: la sua estensione è imponente. Ci sono degli ambienti da esplorare –facendo attenzione a ortiche e rovi- che regalano la suggestiva impressione di trovarsi in un mondo in cui l’uomo è estinto e la natura la fa da padrona su ogni elemento antropico. La struttura era alimentata dalla fonte Egeria, che tuttora scorre a poche centinaia di metri dai ruderi, nota nell’antichità per le sue proprietà curative.
Nelle “Metamorfosi” di Ovidio è narrato che la ninfa Egeria fu amante e fidata consigliera del secondo re di Roma, Numa Pompilio, con il quale si incontrava presso il Bosco delle Camene. Quando il re morì la ninfa si sciolse in lacrime, dando vita all’omonima fonte nel nemus aricino. Egeria è spesso considerata uno degli aspetti di Diana, il cui culto è visceralmente legato al territorio nemorense.
Optando per un fuoripista ci si aggrappa alla vegetazione e si sale lungo lo stretto e sdrucciolevole costone. Qui si incontrano altre tombe preistoriche e cavità artificiali per giungere, poco dopo, presso un’altra grande struttura. Ci sono archi che danno accesso a vere e proprie camere ed è qui che ci imbattiamo in una stonatura che lascia perplessi: un divano letto. L’interno dell’ambiente è pulito, non vi sono tracce di immondizia o vandalismi.
Considerando la fatica che costa il percorso per giungere in quel punto, non si possono che aggrottare le sopracciglia nell’immaginarsi l’impegno che l’impresa di trascinare fin lì qualcosa di così pesante abbia richiesto. Al di là dell’ammirevole forza di volontà dei fautori dell’arredamento, si tratta di uno scempio che non fa altro che rinfocolare la rabbia verso i nostri beni culturali privi di qualsiasi tutela. Camminando ancora e attraversando uno stretto passaggio si arriva in ciò che, un tempo, doveva essere un altro spazio chiuso. Noto una particolarità: alcune delle pietre che costituiscono le mura della struttura sono dipinte in maniera curiosa e con colori vivaci.
Qualcosa mi è familiare. Osservo attentamente il pattern colorato e da lontano mi raggiunge un’illuminazione: la stessa figura è dipinta nei pressi dell’Emissario del lago di Nemi. Si tratta palesemente di una fattura moderna, non ho idea di quale possa essere il suo significato e che cosa leghi le due pitture. La questione necessita ulteriori approfondimenti futuri, è solo uno dei tanti misteri di Nemi. Piuttosto, questa struttura cos’è?
Potrebbe trattarsi della prosecuzione delle terme della fonte Egeria oppure potrebbe essere di uno degli opifici di epoca medievale che si trovavano qui in località Orti San Nicola. Torniamo indietro e riprendiamo il sentiero.
Giungiamo a un bivio appena visibile: salendo verso destra si imbocca il ripido stradello che conduce all’eremo di San Michele, al quale ho già dedicato dedicato un articolo diviso in due parti.
Appena saliti oltre il fico che segna la biforcazione, lasciamo il sentiero di San Michele per gettarci in un selvaggio fuoripista oltre le staccionate che delimitano il percorso, rimediando qualche graffio e un paio di cadute.
Camminiamo rasentando lo strapiombo che si affaccia sulla strada che stavamo percorrendo poco prima, sulla sinistra si notano ancora tombe e qualche piccolo rudere. Il percorso -se così si può definire- si interrompe davanti a un manufatto corredato di sportello in metallo e lucchetto. Con un pizzico di incoscienza ci arrampichiamo sulla parete quasi verticale che costeggia questa capannina, utilizzando radici e cespugli come appiglio e gradini. Qui ci troviamo di fronte a un altro manufatto in mattoni con portello ma…stavolta niente lucchetto. Ci vogliono le maniera forti ma infine lo sportello si apre e sgusciamo all’interno dell’Acquedotto delle Facciate di Nemi(Ca234LaRM), il quale convogliava l’acqua alle gore delle sei mole sottostanti. Questa è la soluzione all’enigma davanti al quale mi ero trovata al termine della mia escursione al Romitorio di San Michele.
Acquedotto delle Facciate di Nemi.
La volta del cunicolo è a cappuccina, l’esterno dell’acquedotto è costituito da selce e calcestruzzo ed visibile a tratti nel bosco, in cui è facile scambiarlo per una qualche forma di terrazzamento. Questo tratto è conservato in buono stato, ai basamenti è possibile notare la presenza di bocchette per l’areazione. C’è una particolarità: proseguendo per alcune centinaia di metri si giunge al punto in cui anticamente si dovette riparare un crollo della struttura utilizzando due enormi mole.
La vista è al contempo spettrale e suggestiva. All’interno della galleria è stata rilevata una forte ristagnazione di anidride carbonica, soprattutto nel periodo estivo, quando è intensificata dalla traspirazione della vegetazione. Nel caso in cui si voglia esplorare l’interno è perciò consigliabile addentrarvisi nei mesi autunnali e invernali.
Impressi nel cunicolo vi sono diversi bolli imperiali, i quali hanno permesso di identificare l‘opera come coeva rispetto alla struttura termale sottostante: I a.C.-IV d.C. L’acquedotto era in uso fino al 1900. Usciamo e affacciandoci dal portello notiamo che un po’ più in alto rispetto al punto in cui si trova l’ingresso appena utilizzato, vi è un’altra porzione dell’acquedotto, abbandonata e inutilizzata da tempo immemore. Raggiungerlo è un’impresa ardua, la pendenza è notevole e la fitta vegetazione cerca in ogni modo di respingerci.
Questo moncone di galleria è in cattivo stato e interrotto da un crollo a circa 100 metri dall’ingresso.
Secondo le fonti storiche la destinazione originale dell’intera opera era Lanuvio, dopo aver aggirato il lago e proseguito il suo percorso sotto Genzano. Fino a pochi anni fa non vi erano evidenze a suffragio di questa teoria, stata ripristinata recentemente dopo il ritrovamento di un tratto del cunicolo a nord-ovest di Lanuvio, in una vecchia cava.
Usciamo dallo stretto passaggio, per oggi il viaggio nel tempo è terminato. Riprendiamo la via del ritorno e percorriamo a ritroso le tappe del nostro itinerario breve ma ricco di variegati elementi.
Salutiamo il complesso termale, San Nicola, la necropoli, l’acquedotto delle Mole. Lo stato di incuria in cui versano queste preziose testimonianze del passato è vergognoso, è vero.
Tuttavia, forse è proprio l’abbandono, questa assenza di “preconfezionamento” dei beni archeologici, che rende questo luogo speciale. Qui è ancora possibile vivere un’esperienza di prima mano, grezza, dilettantistica, a volte pericolosa, ma sicuramente in un certo senso più coinvolgente sul piano emozionale.
Puoi avere persino l’illusione di aver scoperto qualcosa che nessun occhio umano vedeva da millenni. Puoi toccare la pietra antica, puoi aggirarti liberamente fra le mura sacre, puoi entrare in una tomba preistorica e puoi anche prenderti personalmente cura di tutto questo.
Puoi persino sederti all’imbocco di un cunicolo vecchio di 2 millenni e goderti il panorama dall’interno per tutto il tempo che vuoi.
Guardando in basso, nel fitto bosco sotto di noi, ti domandi quanto il nemus ancora nasconda fra le sue spire d’edera, cosa la terra serbi ancora in seno.
Quali tesori del passato giacciano in un abbraccio di radici.
Nemora,
Alessandra
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Per chi volesse vedere i complessi di San Nicola e della ninfa Egeria in 3D, sono disponibili delle panoramiche virtuali su www.italiavirtualtour.it .
Si ringrazia Valentina per la pazienza e la disponibilità nei numerosi sopralluoghi che la stesura di questo articolo ha necessitato.
Nemora,
Alessandra
Bibliografia:
– Opera Ipogea, n°2/3 2003;
– Nemi- Status Quo. Recent research at Nemi and the Sanctuary of Diana.
Linkografia:
– www.enciclopediatreccani.it/enciclopedia;
– www.lazio.thule-italia.org;
– www.italiavirtualtour.it ;
– www.radiocorriere.tv