Cattedrale dell’Assenza
Il Museo delle Navi Romane di Nemi, santuario decadente annidato in un bocca vulcanica.
Lo si individua chiaramente dall’alto: un doppio hangar dal tetto bianco, primo esempio in tutta la storia mondiale di edificio costruito in funzione del contenuto che avrebbe dovuto ospitare.
Quando l’incredibile opera di recupero dal fondo del lago delle navi dell’imperatore Caligola (12 d.C.- 41 d.C.) fu portata a termine, il museo venne progetto e realizzato in base alla forma dei relitti.
L’intera operazione era stata promossa e incoraggiata da Benito Mussolini e dal governo fascista, nel suo piano di valorizzazione e glorificazione della storia romana.
Fu il dittatore stesso, nel 1928, ad avviare gli impianti idrovori innestati nell’antico Emissario del lago di Nemi (VI a.C.), medianti i quali il bacino lacustre venne svuotato appositamente per permettere il recupero delle navi imperiali.
Mussolini presenziò all’inaugurazione del museo, nel 1939.
La notte fra il 31 maggio e il 1° giugno del 1944, in circostanze poco chiare, nei dintorni del museo divampò un incendio: entrambe le navi vennero avviluppate dalle fiamme e furono ridotte in cenere.
Le teorie sulle origini del disastro sono diverse. La storia ufficiale narra di un bombardamento alleato diretto verso una batteria antiaerea nazista formata da quattro cannoni, ma la testimonianza dei custodi dell’epoca riporta di soldati tedeschi che si aggiravano quella notte all’interno del museo con delle torce accese in mano, da qui la tesi di un rogo volutamente appiccato.
Il museo, d’altro canto, fungeva da ricovero per gli sfollati di guerra provenienti da Genzano e Nemi, non è da escludersi -dunque- che si sia trattato di un banale incidente occorso all’interno del campo d’accoglienza.
L’elemento saliente è uno: il Museo delle Navi Romane non ospita alcuna nave da più di 70 anni. Ma, allora, cosa c’è all’interno di questo hangar gigantesco?
Qualcuno l’ha definita “cattedrale vuota” tuttavia, in realtà, c’è molto, molto più di quanto lo sguardo possa cogliere fra le mura scrostate e la polvere negli angoli.
Ma cominciamo dall’inizio.
Che il male resti fuori: ingresso al Museo delle Navi di Nemi
Un cancello e un’inferriata verdi.
Entrata dispersiva, il casottino in cemento per pagare il biglietto d’ingresso nemmeno lo si individua subito. Poi un ampio spiazzo, reperti archeologici semisepolti fra l’erba incolta delle aiuole, gettati alla rinfusa. Un simbolo rarissimo e antico spicca fra l’erba: un masso con l’incisione della quadruplice cinta, marchio esoterico presente nei punti più magici della terra.
Poi l’entrata imponente del museo, con le grandi lettere capitali in pieno stile fascista e le bandiere che sventolano in alto:
MVSEO DELLE NAVI ROMANE
Gli archi, le vetrate alte. Sospingi il portone d’ingresso e sei all’interno.
Accolgono il gelo sedimentato in un ambiente così vasto, l’aria pregna di umidità e l’odore dei luoghi in cui dimorano gli oggetti antichi.
Il primo elemento che si incontra è una mano in bronzo proveniente dal ponte di una delle due navi-tempio. L’etichetta recita “Mano con funzione apotropaica“. Lo scopo di questo feticcio, in sostanza, era quella di tenere lontano il male e la sfortuna.
Posizionarla sul ciglio della porta d’ingresso, le assegna ancora una volta il suo antico scopo.
La struttura interna del museo porta l’impronta inconfondibile delle navi di circa 80 metri che ospitava: due enormi ali esterne divise da una scala a chiocciola centrale.
L’ala di sinistra è dedicata ai pochi resti sopravvissuti all’incendio e alla memorabilia sul recupero dei relitti, l’ala di destra ospita reperti archeologici provenienti dall’area di Nemi e dagli altri scavi archeologici sul territorio dei Castelli Romani.
Cominciamo l’esplorazione proprio da quest’ultima.
Ala destra: miracoli e maledizioni
All’accoglienza non c’è nessuno, non si trova una mappa del percorso espositivo, il Museo è deserto: sei l’unico avventore. Nonostante i fasti e l’attenzione catalizzata nel passata da questo luogo e i flebili tentativi di rilanciarlo, rimane per lo più un’attrazione dimenticata da Dio.
In pochi passi ci si ritrova trafitti dai raggi di luce opaca che invadono lo spazio dalle alte vetrate offuscate dal tempo. Le teche da esposizione, polverose e vetuste, sono sparse senza seguire un criterio logico.
Ti affacci per osservare i reperti e a soddisfare la tua curiosità trovi soltanto delle brevissime etichette descrittive: l’immaginazione farà il resto.
Un elmo dagli occhi vuoti, decine e decine di lucerne accatastate, monili provenienti dalla Tomba Principesca del Vivaro, il fossile di un mammifero preistorico intrappolato nell’arenaria da millenni.
Ere geologiche e storiche che si avvicendano senza un continuum e tu, confuso, continui a fare avanti e indietro fra i mobiletti in vetro per evitare il rischio di perderti qualcosa.
Rimani sulla periferia della vasta sala, osservi ciò che è esposto al suo perimetro. Lo hai visto nelle fotografie d’epoca, lo hai letto nei cartelli informativi e sai che al centro di ognuna delle due ali era depositato l’immenso scafo di una delle due navi.
La sua carcassa è scomparsa fra le fiamme decenni e decenni fa, ma la sua sagoma rimane impressa nella struttura che la accoglie.
È come ricavare una forma osservando il negativo di una fotografia: ne delinei i contorni e la mente riempie gli spazi vuoti con angoli e colori.
Rievochi l’odore del legno umido, sepolto sotto i fanghi e i flutti del lago per quasi duemila anni. Ricostruisci l’intelaiatura, l’enorme timone e poi ti spingi ancora oltre. Ergi strutture in marmo variopinto e il vascello prende vita. I fumi degli incensi accesi in onore della dea Iside, il cui culto egizio veniva praticato sulle sponde del lago, i canti, il fruscio degli abiti delle vestali.
Un battito di ciglia ed è tutto scomparso: sei di nuovo solo fra gli spifferi e le macchie d’umidità che si aprono un varco negli angoli della sala.
Fra i reperti ve ne sono alcuni che catturano la tua attenzione in modo particolare.
Una teca a tre ripiani è stipata di riproduzioni in terracotta di organi e arti umani. Si trovano mani, cuori, vesciche, uteri, falli, orecchie, gambe e persino un piccolo mezzo busto con le interiore esposte.
Si tratta di ex voto offerti dai fedeli presso il tempio di Diana Nemorense nel corso dei secoli, nella speranza che la dea li aiutasse nel guarire da un disturbo che colpiva quella specifica area corporea.
Nel caso di offerte rappresentanti organi genitali, la richiesta era indirizzata verso il concepimento di un figlio. Questa specifica offerta è simbolica del valore che Diana ricopriva per i popoli della zona: non mera divinità della caccia, ma Dea Madre dispensatrice di vita e fertilità.
Osservi la teca piena di organi e membra. Questa visione ti ricorda l’usanza di lasciare protesi e stampelle nei pressi dei luoghi in cui avvengono le apparizioni mariane.
Nel mobiletto accanto, tra fregi e epigrafi latine, spicca un reperto anomalo.
Un piccola incisione in un alfabeto che non conosci. Assomiglia al futhark, l’antico alfabeto germanico, ma nei tratti ma c’è qualche elemento che ti fa capire che si tratta di qualcosa di diverso.
Scruti a lungo, poi volgi lo sguardo verso l’etichetta e non puoi fare a meno di trasalire: si tratta di una maledizione in lingua etrusca, un maleficio scagliato contro un nemico.
Gli etruschi erano noti fra i romani per la loro dimestichezza con le arti magiche e furono loro a importare nell’Urbe la pratica dell’aruspicina, rituale nel corso del quale venivano analizzati fegato e viscere di animali sacrificati per fini divinatori. Gli aruspici, considerati stranieri in territorio latino e romano, non appartenevano alla classe sacerdotale, eppure erano largamente consultati quando vi fossero necessità di natura pratico-spirituale, quali predire il futuro o lanciare maledizioni.
Ti allontani da quello stralcio di pietra scura e finalmente ti immergi nel centro della sala, dopo aver lanciato un rapido sguardo ai sarcofagi presenti negli angoli.
Non dovresti trovarti lì, quello spazio appartiene a un relitto.
Eppure ora è costellato di statue in marmo: l’imponente Minerva, Atteone mutato in cervo e sbranato dai cani di Diana, il gigantesco Caligola sfigurato dalla damnatio memoriae.
Uno stralcio delle Via Sacra che, seguito in linea retta, conduce verso il Santuario di Diana Nemorense.
Gioielli, piatti, ceramiche. Un girotondo storico confusionario all’ombra delle grandi assenti che dimoravano in questi ambienti.
Non importa in quale periodo dell’anno visitiate il Museo, il gelo e una luce grigia e indiretta vi accompagneranno fra una teca e l’altra. Sempre.
Ala sinistra: gloria delle memoria condannata
Si oltrepassa la scala a chiocciola e la proiezione che mostra i filmati storici del recupero delle due navi e ci si trova nell’ala di sinistra, dedicata ai relitti e all’impresa della loro rinvenimento.
L’opera ha visto un carosello di archeologi, ingegneri e operai circolare nel lago di Nemi negli anni fra il 1928 e il 1932. Foto color seppia di uomini in giacca, cravatta, bombetta e baffi a manubrio che osservano le pompe idrovore prosciugare il lago. Gente in maniche di camicia armata di pala che scava nel fango. Ricostruzioni del primo tentativo di recupero, effettuato da Leon Battista Alberti nel lontano 1446, cui ne sono seguiti molti altri nei corso dei secoli a venire.
Le due navi hanno lottato per rimanere ancorate al fondale lacustre e l’unico modo per riportarle in superficie, alla fine, fu mettere in secca il lago. Un’azione violenta, intrusiva, giustificata dalla testardaggine e dalla curiosità. Purtroppo il trofeo ha avuto vita breve.
Continui a passeggiare fra le foto e le ricostruzioni in scala delle navi. Questo museo è un monumento all’evocazione, l’esatto opposto della damnatio memoriae di Caligola per la quale i due lussuosi templi galleggianti furono affondati.
La distruzione delle navi nel rogo del ’44, in termini fatalistici, può essere considerata come la riaffermazione – con forza – che l’uomo non ha il potere di riabilitare ciò che è stato maledetto e condannato con anatema divino tanto tempo fa.
Passeggiare in questo guscio vuoto è un rito nel quale si rivive ad libitum la memoria di un fasto perduto e, concentrandosi così intensamente su un’entità, in un certo senso la si rigenera.
Passo dopo passo, fra la muffa, l’umidità, le crepe, si ha la sensazione stessa di trovarsi dentro un vascello affondato: il Museo stesso è un relitto. Il freddo che si avverte, l’isolamento, il silenzio, ricreano le condizioni eteree in cui si trovavano le due navi sul fondale del lago. Si fluttua, sospesi, in uno spazio senza tempo.
E a spalleggiarci, per tutto il percorso, ci sono queste enormi carcasse fantasma di cui non c’è più prova tangibile ma la cui presenza è palpabile. Come il formicolio che avvertono gli amputati nell’arto mancante.
Sulla scia di questa presenza incombente, in questi ultimi tempi, è scattata la ricerca di un’ipotetica terza nave, negata dalla storia ma favoleggiata dalle popolazioni locali.
Una parte di noi arriva inevitabilmente a chiedersi “Non sarebbe stato meglio lasciarle nel fondo del lago?”. Indubbiamente ora sarebbero ancora intatte, sicuramente sarebbero state preservate.
Ma camminando fra le strade di Nemi, lungo la riva del lago, nei pressi di questo tempio marcescente, tutto desta un senso che nel suo generarsi assume fattezze ancora più grandi di quelle che avrebbero avuto i due scafi sani e salvi davanti ai nostri occhi: il senso della tragedia e la brama del perduto. La glorificazione del bello non avviene non con il suo manifestarsi, ma si verifica con la sua rovinosa caduta. Ed è in queste ferite che si innesta la memoria più ostinata, alla quale si accostano l’esaltazione e l’innalzamento di un elemento non presente.
Che passeggiata di notte con la tua assenza al mio fianco:
mi sta accanto il sentire che non vieni con me.
Così recitava Pedro Salinas ne La Voce a Te Dovuta ed è in questa ottica che mi piace intendere la visita di questo luogo: il Museo delle Navi Romane è un omaggio a un’assenza che accompagna.
Oltrepassi la mano in bronzo, sposti il pesante portone. Uscire all’esterno è come riemergere in superficie, dopo una lunga apnea subacquea.
Questo è il tempio dell’evocazione, uno scrigno di vuoti. Un luogo che custodisce e incripta le presenze.
Tornando, in un gioco di specchi e rottura delle barriere fisiche, ci si sorprende nell’incontrare se stessi persi ancora sul fondale quieto, nell’ombra proiettata dallo spettro di un relitto.
Alessandra di Nemora
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