Regina Viarum
I lavori di realizzazione della Via Appia Antica si fanno risalire al censore Appio Claudio Cieco ed ebbero inizio nel 312 a.C.
L’intero percorso originario collegava Roma al porto di Brindisi, in cui si trova il punto di partenza per le rotte orientali.
Considerata dai romani regina viarum, la regina delle strade, nel 1988 è stata posta sotto la tutela dell’etichetta di Parco Regionale.
Attualmente territorio del parco investe un’area di 3.400 ettari e ingloba in sé i comuni di Roma, Ciampino e Marino.
Incamminandosi sul suo basolato è possibile percorrere 14 km al di fuori del tempo e dello spazio.
Si comincia passando al di sotto di Porta San Sebastiano, pittoresco residuo di quelle che un tempo erano le Mura Aureliane, e poco dopo si incontra la colonna in marmo che segna il primo chilometro della via Appia.
Il tratto è molto urbanizzato, ci sono semafori e bisogna schivare le auto, ma mettersi in cammino e aver attraversato l’arco della Porta già crea una scissione con l’ambiente circostante. Si ha la sensazione di essere anime che si muovono nella modernità con distacco, come se la realtà in cui ci si trova non fosse più intersecabile con quello che c’è intorno.
I primi grandi resti archeologici che si incontrano sono sepolcri ipogei cristiani, le Catacombe di San Callisto e -successivamente- le Catacombe di San Sebastiano.
Quello che si rende immediatamente visibile sono le maestose chiese e gli ingressi monumentali creati in un’epoca successiva al 313 d.C., quando Costantino concretizzò la libertà di culto in tutto l’Impero. È interessante godere del contrasto fra il marmo e la magnificenza ostentata in superficie e il cuore silenzioso, nascosto e umile che si trova sottoterra, dove tanti corpi raccolti in meditazione nella terra giacciono lontani dal fragore.
Questa porzione della Via è gremita di turisti, ciclisti e famiglie nel pieno di una passeggiata ricreativa.
I beni culturali che si incontrano sono protetti da recinzioni e per accedere a molti di questi bisogna pagare un biglietto di ingresso o prenotare una visita guidata.
La Villa di Massenzio è un’eccezione e vi si può accedere liberamente. Il primo elemento che si nota della villa è la costruzione innesta a protezione del Mausoleo di Romolo, tomba sotterranea in cui venne deposto Valerio Romolo, primo figlio dell’Imperatore, morto in giovanissima età.
La nota distintiva del complesso, però, sono i giganteschi ruderi del Circo di Massenzio. Sembrano dei giganti assopiti, istintivamente mi riportano alla mente il dipinto di Salvador Dalì “Reminescenza archeologica dell’Angelus di Millet“, in cui due contadini che udendo la campana della chiesa annunciare l’Angelus hanno interrotto il lavoro per pregare a capo chino, sono ritratti come rovine in pietra.
I resti della villa sono sparsi in un prato molto vasto, talmente ampio e dispersivo da disorientare i visitatori che vagano con casualità da una parte all’altra.
Poco dopo ci si avvicina Mausoleo di Cecilia Metella, davanti al quale di trova lo scheletro orbo della chiesa sconsacrata di San Nicola.
Per tutto il percorso è possibile scorgere il Monte Cavo sorvegliare il cammino e, nello strato più profondo del Mausoleo, è possibile trovare una testimonianza dell’epoca in cui i Castelli Romani non erano altro che un occhio rosso di fuoco e magma.
Scendendo nel piano sotterraneo della struttura, di fatti, è possibile vedere la colata lavica del Vulcano Laziale che 40.000 anni fa si riversò dai Colli Albani fino all’area che poi avrebbe costituito l’Appia Antica. La lingua di lava si raffreddò e consolidò all’altezza del mausoleo, dove ancora oggi riposa.
Oltrepassato l’ultimo bar e l’antica stazione termale di Capo di Bove, la strada cambia faccia.
Ville antiche e moderne si alternano fra di loro e fanno la loro comparsa statue e resti di sepolture ai lati del basolato. Una lunga fila di cipressi e pini abbraccia il visitatore, il chiasso si riduce, le persone man mano si diradano.
Le sagome in marmo sembrano tornite dalla luce del sole, i sarcofagi sono accarezzati dall’erba incolta che vi cresce attorno.
Sulla sinistra compaiono, in lontananza, gli archi dell’antico acquedotto che si rincorrono nei campi di Tor Fiscale. Qui c’è silenzio, c’è raccoglimento.
L’edera si arrampica sulle mura del civico 199, dove compare una citazione in latino, beata solitudo, “beata solitudine”.
Sembra di essersi allontanati centinaia di miglia dal chiasso che caratterizzava l’inizio della Via Appia e invece ci si trova solo pochi chilometri più avanti. A volte il passo verso una dimensione “altra” è molto breve.
Gli alberi si diradano e fanno spazio ad ampi campi sempre sovrastati dal picco di Monte Cavo, dimora del dio Giove Laziale e punto di riferimento per l’arcaica Lega Latina.
La Villa dei Quintili è l’ultimo baluardo di “archeologia addomesticata” che si incontra; una struttura compatta nel cui spicca l’ingresso ricavato dal ninfeo monumentale. Vederla comparire di notte, illuminata da poche luci che ne definiscono i contorni ombreggiati, è un tuffo al cuore.
Nelle vicinanze si trova la Tomba degli Orazi e dei Curiazi, dove riposano le spoglie mitologiche degli eroi che si scontrarono ai tempi della cruenta lotta fra Albalonga e Roma.
Da qui in poi le grandi ville moderne lasciano spazio a un susseguirsi di lapidi, resti di piccoli torrette, tumuli che nascondono sepolture solo parzialmente disseppellite.
Fanno di nuovo la loro comparsa gli alberi ai lati della strada e l’ambiente diventa più selvatico.
La strada è diritta e smarrirsi è impossibile, tuttavia è facile perdersi su un piano più intimistico e ritrovarsi disorientati sul piano temporale, soprattutto se si percorre questa via alle ultime luci del giorno, quando è raro incontrare altri avventori e le languide spire del tramonto accarezzano il basolato deformato dalle impronte di milioni di passi.
Negli Atti degli Apostoli si narra che San Pietro si incamminò sulla Via Appia nel tentativo di sfuggire alle violente persecuzioni dei cristiani ordinate dall’imperatore Nerone.
Qui incontrò Gesù il quale, però, percorreva la strada in senso opposto.
–Quo vadis, Domine?-
–Eo Roman, iterum crucifigi.-
“Dove vai, Signore?” chiese l’apostolo e Gesù rispose che stava tornando a Roma per essere crocefisso nuovamente.
San Pietro capisce che il suo destino è il martirio: si volta e ripercorre la strada verso Roma, dove sarà crocifisso sì, ma -su sua stessa richiesta- a testa in giù, perché non si riteneva degno del privilegio di morire come il figlio di Dio. I ruderi si fanno sempre più sporadici, la natura prende il sopravvento, il basolato scompare sotto un tappeto d’erba.
Non si comprende bene a che altezza ci si trovi, i punti di riferimento sono vaghi.
L’unica certezza è che i Castelli Romani sono molto vicini e si riesce a distinguere alla perfezione la Specola Vaticana che sormonta Castel Gandolfo.
Si cammina in un’area depressa, acquitrinosa, brulla. Un sottopassaggio buio e poi, improvvisamente, la via Appia Antica ti risputa nella realtà e nel presente all’altezza di Santa Maria delle Mole, dove si viene accolti dalle esalazioni gassose di un Vulcano Laziale più vivo che mai nelle viscere della terra.
Ti guardi intorno: asfalto, neon, automobili e il fatiscente Palaghiaccio di Marino.
-Dove sono stato tutto questo tempo? E, soprattutto, dove dovevo andare?-
Qui non c’è niente da vedere, la bellezza e la poesia te le sei già lasciate alle spalle. Ma le loro radici si sono ormai impiantate in qualche recesso fertile della memoria.
Beata solitudo, sola beatitudo.
Forse. Forse no.
Perché quando giunto in mezzo allo squallore avverti comunque un senso di pienezza e appagamento, capisci che quello che conta non è la meta ma la strada, la Via, e le persone con cui la si percorre.
Alessandra di Nemora
Un grazie speciale a Valentina che mi ha accompagnata per ben due volte sul basolato della Via Appia Antica, la prima volta in un cammino di 45 km lungo la via Francigena del Sud e la seconda in una delirante escursione in notturna.