Il Bosco Ferentano, noto nel dialetto marinese come “u’ Boscu“, è un’area verde che si estende nell’arco di 22 ettari fra i comuni di Marino, Castel Gandolfo e Rocca di Papa.
Per me il Bosco Ferentano fa parte di quella tipologia di luoghi “della serendipity“, ovvero scoperti per puro caso. Un giorno, passando per la Via dei Laghi, notai un’area picnic piuttosto malmessa. Nonostante l’aspetto trasandato, mi lasciai incuriosire dal lussureggiante sottobosco e accostai la macchina nel piccolo parcheggio antistante l’ingresso.
Camminai in quel posto dall’atmosfera sospesa e trasandata, imboccando alla fine un piacevole sentierino che mi condusse dopo poco meno di un chilometro presso un centro abitato. Girovagai per un po’, finché non constatai che si trattava fondamentalmente di un’area circondata dalla stessa Via dei Laghi e da una cintura di villette.
Tornata a casa svolsi alcune ricerche per cercare di trovare alcune referenze su quel boschetto dimenticato da Dio e dagli uomini ed è così che appresi dell’esistenza del Bosco Ferentano. Mi resi conto che in realtà quello che avevo visto non era che l’anticamera di una dimensione molto più vasta, l’antica Selva Ferentana (Lucus Ferentinae), considerata sacra dimora delle divinità silvane della terra in epoca preromana.
Attualmente rappresenta una rara occorrenza di bosco misto e preserva, accanto a specie importate nell’area dall’uomo (come ad esempio il castagno, piantato nei Castelli Romani nel 1600 per la sua legna e per i frutti) la flora primordiale autoctona. Fra le specie arboree che dimorano in questo quadrante troviamo alcune vere e proprie rarità, quali il borsolo, nonché alberi secolari e un tiglio alto ben 26 metri.
Scoprii anche che nell’alveo di questo grande territorio è collocato il Barco Colonna, detto anche Parco delle Rimebranze (per la geolocalizzazione del punto d’ingresso cliccare qui), antica riserva di caccia delle nobile famiglia Colonna. Ed è qui che ora voglio accompagnarvi.
Caput Acquae Ferentinum
Il Barco Colonna, salendo dalla Via dei Laghi, è situato proprio all’ingresso del paese di Marino. Passando in auto avevo registrato quel cancello sulla destra centinaia di volte, ma non avevo mai pensato che potesse celare ben più di un parchetto pubblico.
Il Barco sorge in una vallata umida solcata dalla Marana delle Pietrare, proveniente da Rocca di Papa e dal Caput Aquae Ferentinum. La vallata è delimitata a nord dall’altura su cui sorge il centro storico di Marino e il cimitero cittadino, e a sud da Monte Ferebbio, parte della corona del Lago Albano.
Al suo interno scorre il Caput Aquae Ferentinum, sorgente identificata come lo sbocco dell’Emissario di Nemi. L’antico Capo d’Acqua sboccava infine a Cecchina, zona di rinvenimento di una necropoli arcaica le cui tombe a fossa hanno restituito una macabra scoperta: 20 scheletri decapitati, ammassati fra loro. Il ritrovamento di una pietra circolare nei pressi della necropoli suggerisce che i corpi appartenessero alle vittime di un’esecuzione capitale. O chissà, rituale. Siamo in un’epoca molto remota e il culto del Rex Nemorensis esplicita la presenza di un filone sanguinario nella religiosità locale antica.
La denominazione Caput Aquae Ferentinum (che poi sarà trasferita al Bosco Ferentano) è dovuta al fatto che le fonti antiche riportano la sua posizione come vicina al Locus Ferentinus il luogo di raduno della Lega Latina o, secondo altri, il foro della leggendaria Alba Longa.
I progettisti dei Colonna si servirono il corso d’acqua per valorizzare la riserva di caccia con scenografie acquatiche, sfruttando al meglio la presenza di una cascatella.
U’ Lengheru, il fantasma di Turno Erdonio
Fra i misteri contemplati da queste acque, ce n’è uno in particolare che è giunto fino a noi attraverso fonti documentali. Risulta infatti, che in questa sorgente venne fatto affogare da Tarquinio il Superbo (re di Roma dal 535 a.C. al 509 a.C.) il delegato latino di Aricia Turno Erdonio, il quale ebbe l’ardire di opporsi al volere del Superbo re di Roma, forse per questioni che riguardavano la guerra in corso fra i romani e i Volsci.
Si narra che ancora oggi sia possibile incontrare Turno Erdonio mentre vaga nel Bosco Ferentano, avvolto in un lungo mantello nero. Il fantasma del delegato latino è denominato “U’ Lengheru“, termine che richiama l’antica credenza popolare del lenghelo, spirito dall’aspetto alto e longilineo.
I lengheli possono essere di tre tipi: della casa, dell’orto o del bosco. I primi due sono sostanzialmente dispettosi e innocui, mentre gli ultimi -chiamati lengoletti– sono profondamente malvagi e si intrattengono facendo smarrire la via agli esseri umani confondendo loro i sentieri e spaventano gli animali selvatici. La tradizione popolare ci riporta esattamente come capire se un luogo è abitato da uno di questi spiriti malvagi: “Quando il bosco è cupo e silenzioso, uccelli non volano e non cantano, né si incontrano animali, è segno che quello è il territorio di un lenghelo.”
Abbiamo detto abbastanza sulla storia del Bosco Ferentano e del Barco Colonna, è il momento di varcare spingere il cancello d’ingresso e lasciare che sia il luogo stesso a raccontarci il resto.
Sunyata, il volto vero delle cose
C’è un vocabolo sanscrito di difficile traslazione che esprime appieno il concetto che vorrei introdurre. Questo termine è “sunyata” e si può tradurre in maniera estremamente approssimativa come “vuoto” o “vacuità”. Nella dottrina Buddhista il vuoto non viene vissuto con horror vacui, ma come condizione necessaria affinché si manifestino il divino e la vera natura del mondo fenomenico. Tutto quello che sperimentiamo quotidianamente è falsato dalla nostra visione deformata, il sunyata invece è il volto reale delle cose, spogliate dal filtro della mente umana.
Quando voglio vedere il volto autentico di un luogo, faccio in modo di incontrarlo al tramonto. Il passaggio dal giorno a crepuscolo è un momento così emotivamente coinvolgente da spalancare tutti i canali di percezione e trasmissione. In quei momenti siamo aperti, vasti. Dei vasi comunicanti in condivisione con quanto ci circonda e viceversa. Si manifesta, attraverso una fenditura sottile squarciata dagli ultimi raggi del Sole, il sunyata di uno spazio.
Per conoscere il vero volto del Bosco Ferentano, l’ho attraversato al tramonto, molto tempo prima di leggere a fondo la sua storia. È una pratica che ho adottato da tempo, non mi documento mai in maniera completa nel corso della prima esplorazione di un posto nuovo. Cerco di viverlo nella dimensione più emotiva possibile. Dopo vengono le leggende, la storia, l’aspetto archeologico.
Ecco, dai primi passi nel Bosco Ferentano, o meglio nel Barco Borghese, si avverte un Genius Loci di rara intensità. Tutto compartecipa a questa sensazione, la vallata con le pareti schiaccianti, l’umidità, il rumore leggero del corso d’acqua, le rovine architettoniche dei Colonna. Più ci si addentra e più ci si sente ospiti in un’enclave territoriale che è altro rispetto a ciò che ci siamo lasciati alle spalle.
Il Barco sorse alla fine del XVI secolo e nel 1590 venne edificato il portale a bugne in peperino che accoglie i visitatori a pochi metri dall’ingresso. La decorazione del parco era composta fondamentalmente da fontane monumentali, adorne di statue alte fino a due metri in peperino, di cui oggi ci restano solo poche testimonianze.
Dulce et decurum est
Si oltrepassa il portale e si prosegue lungo il sentiero, costeggiando il Caput Acquae Ferentinum, sovrastati dalla vegetazione lussureggiante. Siamo vicinissimi all’abitato eppure lo avvertiamo come appartenente a un’altra dimensione.
La riserva di caccia dei Colonna nel 1916 diventò proprietà del Comune di Marino: in epoca fascista verrà trasformato nel Parco della Rimembranza.
Addentrandosi nel sentiero, sulla sinistra, si incappa in un ponticello in legno che conduce davanti a una parete modellata in maniera irregolare. Si tratta di una lapide commemorativa per le vittime marinesi cadute nella Prima Guerra Mondiale, le parole recitano:
DVLCE ET DECORUM EST
PRO PATRIA MORI
“È bello e dolce morire per la patria“. Questa citazione di Orazio è anche nota per essere il titolo di una poesia del 1917 a opera di Wilfred Owen -morto nel corso delle Prima Guerra Mondiale- famosa per le immagini cruente riportate e per il messaggio di profonda condanna della guerra in essa contenuta (qui il testo originale tradotto).
Nell’opera, il poeta ricontestualizza la frase come segue:
[..] se in qualche orribile sogno anche tu potessi metterti al passo
dietro il furgone in cui lo scaraventammo,
e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto,
il suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato;
se potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
amari come il rigurgito di disgustose,
incurabili piaghe su lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto fervore
a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta disperate,
la vecchia Menzogna: Dulce et decorum est
pro patria mori.
Qualcosa riposa indisturbato
Proseguendo oltre si notano diverse stradine che si dipartono dal sentiero principale: una di questa, situata sulla sinistra nei pressi del nicchione in peperino, si arrampica nel bosco fino a condurre direttamente al cimitero di Marino.
Sulla destra, in altro, troneggia una caverna che nella forma ricorda altre grotte del luogo sfruttare prima come tombe in età del ferro e poi come ricovero. Il sentiero vira a gomito e dalle piante emerge il Cellone, maestosa statua acefala -ovvero priva di testa- lambita dalle spire rosse del tramonto. Un pensiero vola ai corpi decapitati della necropoli di Cecchina.
Da qui in poi il sentiero si fa dimesso, squallido. Al termine del viale si apre una radura che ospitava anticamente un teatro delle acque, oggi rimpiazzato dalla cabina dell’acquedotto comunale.
Cercando di inoltrarsi oltre si scopre solo un groviglio di rovi, un canale asciutto e dei manufatti in cemento abbandonati. Sulla destra si staglia il cimitero comunale. Siamo fra il Bosco Sacro alle nostre spalle e una discarica di copertoni e sterpaglie davanti a noi. È un luogo liminale e come tale mette a disagio. È il momento di tornare indietro.
Mentre percorrevo il viale alberato dopo il tramonto, con le ombre che si ingigantivano e i colori che man mano si fondevano nel nero e nel blu, mi aggrediva mentalmente il senso di “qualcosa di irrisolto”.
Come se in tutto il percorso mi fosse sfuggito qualcosa di estremamente manifesto.
Il fil rouge di questo luogo sembra essere la morte. Il fantasma di Turno Erdonio, i Caduti, gli scheletri privi del cranio nei pressi del Caput Acquae Ferentinum. L’attuale cimitero, in soluzione di continuità con il passato. Abbiamo un corso d’acqua, una valle profonda e rigogliosa, un affaccio privilegiato verso Ovest, abbiamo delle grotte modellate dalla mano dell’uomo.Un pattern che ritorna spesso nelle necropoli più antiche.
Non sono un’archeologa, sono un’appassionata che dialoga con i luoghi. Ma sono anche un’osservatrice convinta che da qualche parte, nella Marana delle Pietrare, ci sia qualcosa che riposa indisturbata.
Alessandra di Nemora