Ferinità domata

Le luci del tardo pomeriggio si allungano nel piccolo cerchio al centro della folla. Le urla di bambini, i commenti scherzosi dei genitori.
-Sembra quello del mago Merlino, Anacleto!-
-Oppure la civetta di Harry Potter!-
Inquadro, metto a fuoco, in attesa che si volti nella mia direzione. Ondate di caldo, nella valle che racchiude i Pratoni del Vivaro.
Con un gesto fulmineo ed elegante, il gufo reale fa scattare la testa verso di me. Lo vedo al di sopra della fotocamera.
Non è la prima volta che mi trovo faccia a faccia con un rapace e ho già avuto modo di sperimentare la profondità dei loro sguardi ma, nel momento in cui questa bestia di rara bellezza affonda i suoi occhi nei miei, una scossa mi trapassa il cuore.
Sondata, messa a nudo, indagata nei recessi più profondi. Esito, per un attimo non riesco a scattare. I rumori si fanno distanti, attutiti: siamo solo io e lui, estrapolati dalla realtà condivisa.
Ho l’idea che premendo il bottone e catturando l’immagine, io possa violare la sacralità dell’animale. Alla fine la mano reagisce e il trofeo è ottenuto.
Ma la sensazione di essere stata schiaffeggiata nell’anima non cessa. Il gufo continua a fissarmi, con aria ieratica e ipnotica. Anima ancestrale, impulso ferino. Cosa ci fai tu qui, in mezzo a questo caos, esposto e umiliato fra il pubblico. E cosa ci sto facendo io.
L’addomesticamento non doma quanto di silvestre dimora negli esseri viventi. Il selvatico si adombra, quiesciente, in attesa, per poi irradiare con firezza e rabbia, attraverso le faglie che scricchiolando si dilatano sotto la sua potenza.

Quella notte non ho fatto altro che rigirarmi nella mente le parole H.R. Thoreau:

Mentre me ne tornavo a casa attraverso i boschi con la mia sfilza di pesci, trascinando la mia canna, nell’oscurità ormai fatta, scorsi d’improviso una marmotta che mi strisciava attraverso il sentriero. Provai uno strano brivido di piacere selvaggio, e fui fortemente tentato di afferrarla e divorarla crusa; non perché avessi fame, ma per qualche cosa di primitivo che essa rappresentava. Una volta o due, tuttavia, mentre vivevo al lago, mi scopersi a correre per i boschi come un cane semiaffamato in preda a una strana sensazione di selvaggia liebertà, in cerca di qualche specie di carne selvatica che potessi divorare, e nessun pezzo sarebbe stato troppo aspro, per me.
[Walden – Ovvero vita nei boschi]

E mi domando, mi domando ancora, se si soffra di più per una cattività imposta o per una prigionia autoindotta.

Alessandra di Nemora

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